Il federalismo è di destra o di sinistra? Alcuni sindaci dem, guidati da Giorgio Gori, hanno inaugurato un loro comitato per il Sì al referendum per l’autonomia della Lombardia del prossimo 22 ottobre. C’è dell’astuzia politica nella mossa di Gori, probabile candidato Pd alla presidenza di una Regione in cui il suo partito gioca con pessime carte. Ma questo appoggio dal di fuori del recinto leghista aiuta la causa del plebiscito, e cambia i termini del dibattito.
Il federalismo in Italia è la moda di un’altra stagione. Negli Anni Novanta, tutti i partiti professavano la loro conversione al decentramento. Conversione tattica: l’obiettivo era contenere la crescita della Lega. Il centro-sinistra allo sforzo dedicò persino una riforma costituzionale. Dopo il naufragio della «devolution» berlusconiana nel 2006, le autonomie sono state messe all’indice. Il federalismo anzi divenne la battaglia per i cosiddetti «costi standard»: in buona sostanza una misura di contenimento della spesa pubblica, che non accresceva certo il potere decisionale delle Regioni.
Avendone tanto sentito parlare, gli italiani si sono convinti che il federalismo l’abbiamo già sperimentato, e non funziona. Le cose non stanno proprio così. Il rapporto della Corte dei Conti sul coordinamento della Finanza pubblica (2015) segnalava che, dalla riforma del 2001 al 2015, il rapporto fra spesa dei governi locali e totale della spesa pubblica nel periodo 2001-2014 è rimasto sostanzialmente costante. Quel che più conta, «così come nel 2001, ancora nel 2012 i livelli di governo locale in Italia per ogni euro speso incassavano meno di 50 centesimi». Le entrate dei governi locali pesano, in Italia, assai meno che in Germania e Spagna.
L’essenza del federalismo è l’autonomia fiscale e impositiva degli enti locali. Riguarda, dunque, la linfa dello Stato: i tributi. Non è più il centro a raccoglierli, e a distribuirli alla periferia, ma avviene il contrario.
È vero che la Lombardia fa storia a sé. Ha scelto, per esempio, un sistema sanitario differente, basato su una certa competizione fra pubblico e privato. È stato un successo. Si dirà che altre Regioni hanno una inferiore vocazione all’autogoverno. Può darsi, ma da dove può venire l’incentivo a imparare dai migliori? Impedire ai più bravi di correre più forte non ha mai aumentato la velocità dei meno atletici.
I modelli federali hanno successo perché siamo tutti più bravi a capire come si comporta un governo «vicino», che gestisce i servizi di cui usufruiamo direttamente, di quanto non lo siamo a capire come si comporta il governo nazionale, che svolge attività magari importantissime ma con un impatto modesto sulla vita di ciascuno di noi. Per esprimere una valutazione sensata su un servizio, dobbiamo avere idea di quanto costa. Questo è possibile soltanto se, con trasparenza, paghiamo le imposte che servono a finanziarlo allo stesso ente che lo eroga.
I lombardi dovranno esprimersi su un quesito blando, che impegna sostanzialmente il governo regionale a fare di più per conquistare spazi. Il presidente Maroni parla di una Lombardia a Statuto speciale: ipotesi ardua per la più popolosa e ricca delle Regioni italiane. Anche in Veneto, dove si voterà lo stesso giorno, più di un sindaco Pd ha preso posizione a favore del referendum. E così in Emilia Romagna alcuni primi cittadini chiedono maggiore autonomia.
Matteo Renzi, che l’altroieri ha incontrato Gori, è l’ultimo ad aver fallito nel riformare «dall’alto», con obiettivi per nulla federalisti, Stato e Costituzione. Chissà che ne pensa l’ex sindaco di Firenze di chi, a sinistra come a destra, oggi vuole riprovarci «dal basso».
Da La Stampa, 5 settembre 2017