20 Gennaio 2025
ItaliaOggi
Diego Gabutti
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All’ombra delle superstizioni marxiste, ma più precisamente leniniste, nate dopo la rivoluzione d’ottobre nei ranghi del comunismo internazionale, cresce a dimensione metafisica l’imperialismo, o babau dei babau. Ci sono le nazioni ricche (la loro opulenza, i loro capitali, le loro cannoniere come nelle storie di Sandokan e del Capitano Nemo) dietro l’arretratezza di quello che sarà poi chiamato «Terzo Mondo». E così che anche in America latina, come racconta Carlos Rangel nel suo Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario, le diverse intellighenzie del Ventesimo secolo, vuoi fasciste, vuoi comuniste, si sono spiegate (e ancora si spiegano) il primato degli Stati Uniti: col «saccheggio» delle risorse dei popoli oppressi, delle «nazionalità proletarie», messe alla fame e condannate al sottosviluppo non da classi di rigenti corrotte, populismi, dispotismi e demagogia, ma dalla bulimia dei «gringos», dalla loro avidità, dai loro eserciti mercenari, dai loro servizi segreti. Autoproclamatisi eredi diretti degli indios, e dimenticando di essere invece i discendenti degli espropriatori spagnoli e portoghesi che nel Cinquecento misero l’America latina a ferro e fuoco, gli intellettuali marxisti-leninisti e peronisti, lacchè di despoti, generalissimi e oggi anche d’un papa, hanno diffuso il loro Vangelo antimperialista e tirato la volata a regimi inetti e feroci, dall’Argentina al Cile, da Cuba al Venezuela.
Gli antenati dei Castro Brothers, di Nicolás Maduro e di Che Guevara, qualunque cosa raccontino oggi i loro laudatores e intellò, non sono gli indios spogliati d’ogni avere all’epoca «de la conquista» ma i fanatici spagnoli che nel le reducciones del Paraguay misero gli indios alla catena («marciando a suon di musica dietro la statua d’un santo condotta da due portantini, ogni mattina gli uomini in età da lavoro partivano per i campi guidati da un padre gesuita»). A dispetto di ciò, i ribelli antimperialisti uruguayani degli anni Sessanta-Settanta del Novecento, più terroristi che guerriglieri, presero il nome dall’inca Túpac Amaru, il sovrano del regno di Vilcabamba, tra gli ultimi tentativi, verso la fine del Sedicesimo secolo, di restaurare la civiltà e la cultura distrutte non dai «gringos» nordamericani, con i loro dollari e la loro indiscussa arroganza consumistica, ma dai dominatori spagnoli, con le loro armi da fuoco e le loro croci cristiane.
Gli Stati Uniti, in realtà, hanno fatto via via da modello a tutte le nazioni latinoamericane. Già nel 1833, nel suo La democrazia in America, Alexis de Tocqueville scriveva (come ricorda Carlo Rangel) che «gli americani degli Stati Uniti esercitano una grande influenza morale sui popoli del Nuovo mondo. E da loro che parte la cultura. Tutte le nazioni che abitano il continente sono abituate a considerarli i rampolli più civili, più potenti e più ricchi della grande famiglia americana […]. Quotidianamente vengono ad attingere dagli Stati Uniti le dottrine politiche e a prendere a prestito le leggi […] Ogni popolo che nasce o s’ingrandisce nel Nuovo mondo, vi nasce e s’ingrandisce [grazie, oltre che] a vantaggio agli anglo-americani». C’è questo, e non la favola leninista del «saccheggio», dietro l’intervento detto «imperialista» delle nazioni più avanzate su quelle arretrate, come non sapeva soltanto Tocqueville ma sapevano anche Marx ed Engels, quando scrivevano (vedi India, Cina, Russia, il Saggiatore 1976) che «le idilliache comunità di villaggio» lodate da quaccheri e filistei «sono sempre state la solida base del dispotismo orientale. Esse racchiudono lo spirito umano entro l’orizzonte più angusto facendone lo strumento docile della superstizione, asservendolo a norme consuetudinarie, privandolo d’ogni grandezza, d’ogni energia storica. Non si deve dimenticare [lo spettacolo] barbarico della rovina d’imperi, delle crudeltà indicibili, del massacro della popolazione d’intere città [cui le società dominate dai despoti orientali] non prestano più attenzione che agli eventi naturali».
Non è andata sempre così: gli Stati Uniti, come nelle pagine di Tocqueville, sono stati a lungo un esempio per le nazioni del subcontinente. Giornalista, diplomatico e poeta nicaraguense di fine Ottocento, Rubén Darío s’augurava «che l’America latina s’aprisse alla magica influenza» dell’America del Nord. Anche più tardi «la reazione latino-americana all’intervento degli Stati Uniti è stata sovente imprevedibile. Quando [el Generalísimo y Benefactor del Pueblo] Rafael Trujillo fu assassinato a Santo Domingo nel 1961, furono tutti ben contenti, e nessuno sembrò far molto caso al fatto che la Cia fosse quasi certamente coinvolta nell’affaire. Né gli Stati Uniti furono mai ringraziati — o, tanto meno, criticati — per aver abbandonato il dittatore cubano Fulgencio Batista dopo che cadde in disgrazia. Ma una protesta generale si levò quando Allen de fu «destabilizzato». Nessuno sembrò ricordare quanto avanti fosse andato Allende nell’opera di liquidazione della democrazia cilena contro la volontà della maggioranza dei suoi concittadini ».