Le firme raccolte online e il ruolo dei referendum


La semplificazione della raccolta delle firme è un’ottima cosa. Lo sarà ancora di più se servirà a un uso accorto dell’istituto


3 Ottobre 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

I promotori dei referendum su autonomia differenziata e cittadinanza esultano per il raggiungimento in poco tempo delle 500.000 firme necessarie a portare avanti l’iniziativa. E hanno ragione: si tratta di un ottimo risultato che forse coni banchetti non si sarebbe ottenuto. Merito della possibilità di firmare online: una cosa buona e sensata, nell’A.D. 2024. Ma anche fin troppo facile. Con sempre più disinvoltura, il voto popolare abrogativo viene invocato dalle forze di minoranza parlamentare per fare quell’opposizione che da soli, in aula o nel dibattito pubblico, non riescono a portare avanti. I referendum sono quasi sempre stati promossi per iniziative di partito. In particolare, il partito radicale li ha usato, qualche volta abusandone, per verificare se su alcuni temi gli italiani la pensavano diversamente dal «palazzo». Lo stesso hanno fatto i promotori dei referendum elettorali. Ora, invece, i partiti tentano di usarli per dimostrare che una parte del «palazzo», ancorché minoritaria alle elezioni, è maggioranza nel Paese.

La semplificazione avvenuta con la raccolta delle firme è il momento opportuno per chiedersi quale uso vogliamo sia fatto di questo strumento democratico, perché con essa il primo livello di verifica, quello relativo non alla volontà popolare, ma al grado di attenzione sul tema, sarà spostato in avanti, al momento stesso del voto, e si rischierà così di abusarne ulteriormente e farlo venire a noia degli stessi elettori.

Autonomia differenziata e cittadinanza, al pari del salario minimo la cui proposta referendaria nasce da un comitato che unisce sindacati, Cinque stelle e PD, sono argomenti di grande impatto. Nel bene e nel male, riescono ad essere ridotti a temi fortemente identificativi: la questione meridionale, i diritti dei lavoratori, l’identità nazionale. E comprensibile, quindi, che possano sollecitare un voto popolare riducendone la complessità a un sistema binario: Nord contro Sud, padroni contro salariati, italiani contro immigrati.

Ma è proprio la combinazione tra la complessità degli argomenti e la semplicità di raccolta delle firme che dovrebbe portare a interrogarsi se il referendum possa continuare ad essere utilizzato come è stato finora, sempre che non si voglia aumentare il numero di firme necessarie.

In questi giorni, c’è stata l’ultima sceneggiata sul Cda della Rai. Nulla di cui stupirsi, finché si tratterà di un Consiglio composto col Centelli in mano. Venti anni fa, Lega e Radicali proposero un referendum per aprire la Rai al capitale privato. La maggioranza degli italiani votò a favore: i privati sarebbero potuti entrare nel capitale sociale del sistema pubblico radiotelevisivo. Nulla è cambiato, anzi. La Rai è diventata sì una società per azioni, ma possedute al 99,56% dal Ministero dell’economia, e allo 0,44% dalla Siae, che è un ente pubblico. Con la riforma del 2015 sulla governance dell’azienda, gli appetiti dei partiti si sono fatti ancora più voraci. A nessuna forza politica interessa la privatizzazione della Rai, nemmeno a quelle di opposizione, che puntualmente gridano allo scandalo delle nomine finché sono tali, ma si guardano bene dal vedersi sottratto un potere di scelta per quando saranno loro a decidere. E si guardano pure bene a rinunciare dai banchi dell’opposizione a un consigliere di minoranza, come ha dimostrato il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. Nel frattempo, l’apertura al digitale ha reso sempre meno necessario il mantenimento della tv di Stato: il servizio pubblico può essere garantito dagli obblighi di servizio in capo alle emittenti, più che dalla loro natura giuridica. Successivamente, le nuove tecnologie hanno definitivamente eroso il monopolio informativo in capo al sistema radio-televisivo.

E facile nascondere l’interesse a mantenere pubblica la Rai dietro il problema della svendita: un’azienda che fatica a innovarsi e che soffre la concorrenza dei mercati contigui non è un gioiello che si venda bene. Ma lo sarà sempre di meno e nel frattempo nessuno, in Parlamento e tra le forze politiche, avrà voglia di riaprire una questione su cui gli italiani già si sono espressi favorevolmente trenta anni fa. E proprio in questi casi che il valore del referendum dovrebbe tornare con tutta la sua forza democratica: non stampella, ma contro canto alle forze politiche istituzionalizzate. Come è avvenuto soprattutto nel referendum sulla legge elettorale del 1993, promosso da Mario Segni e dal Manifesto dei 31.

La semplificazione della raccolta delle firme è un’ottima cosa. Lo sarà ancora di più se servirà a un uso accorto dell’istituto, in particolare per pungolare maggioranza e opposizione su quei temi su cui sembrano più distratti. Di quelli su cui sono più divisi, invece, è bene che imparino ad occuparsene da soli. Diamo loro mandato e indennità per questo. In fondo, per gli appassionati del genere, si tratterebbe di riportare il referendum a strumento di democrazia partecipativa dal basso, quale effettivamente è.

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