Chi l’avrebbe mai detto che proprio il governo nato col decisivo supporto dell’uomo dei porti chiusi avrebbe sbloccato la politica migratoria? A dispetto delle intemperanze verbali di Matteo Salvini, il governo Draghi ha finalmente adottato il decreto flussi, che aprirà le porte a poco meno di 70 mila lavoratori. Uno scarto netto rispetto al passato. Nell’ultimo decennio, gli ingressi consentiti erano rimasti quasi sempre al di sotto dei 30 mila, di cui oltre la metà per i soli lavoratori stagionali.
Sarebbe ingenuo ignorare l’effetto del Covid su questa svolta. La pandemia ci ha fatto capire quanto il nostro stile di vita dipenda dalla presenza di queste persone sul territorio nazionale. La questione era diventata paradossale nel 2020, in tempi di alleanza giallorossa, quando solo la determinazione di Teresa Bellanova, all’epoca ministra dell’agricoltura, aveva consentito la regolarizzazione di oltre 100 mila “invisibili”. All’epoca, oltre alla logica economica, furono le preoccupazioni sanitarie a rendere politicamente possibile l’operazione. Ma, in tal modo, divenne evidente a tutti la dimensione di un problema che diventa di anno in anno più grande.
La novità dell’ultimo decreto flussi sta, allora, nella presa d’atto che l’Italia ha bisogno dei migranti più di quanto i migranti abbiano bisogno dell’Italia. Infatti, molti degli irregolari che sbarcano sulle nostre coste vedono nella Penisola poco più di un territorio di transito. Per noi, invece, è assolutamente necessario creare le condizioni per attrarre braccia e cervelli, in modo da alimentare il mercato del lavoro e compensare in parte gli effetti disastrosi della decrescita demografica.
Tant’è che la stessa Lega – che contro l’immigrazione ha costruito la sua rinascita – stavolta ha scelto una posizione più defilata. Come hanno scritto Goffredo Buccini e Federico Fubini sul Corriere della sera, nessuno più dell’imprenditoria del nord è consapevole di quanto sia necessario ampliare i canali regolari di ingresso.
Allo stesso tempo, il problema del capitale umano è troppo grande per essere affrontato così: abbiamo una domanda di lavoro (e di cittadinanza) che ha sia una dimensione quantitativa sia una qualitativa, nessuna delle quali trova effettiva risposta nella mera e temporanea apertura del rubinetto migratorio. La logica del decreto flussi consiste infatti nella pretesa di stabilire, anno per anno, le esigenze del paese: un meccanismo complesso, che non tiene conto della rapidità con cui cambia il mercato del lavoro. Oltre tutto, la forte politicizzazione della questione ha indotto i governi di ogni colore a centellinare gli arrivi. Sicché ci siamo trovati periodicamente a dover gestire la presenza irregolare di individui che si erano integrati e svolgevano una funzione utile a sé e alla società. Come hanno scritto Enrico De Pasquale e Chiara Tronchin su Lavoce.info, “la regolarizzazione a posteriori rappresenta un’ammissione implicita dell’incapacità di regolamentare gli ingressi”.
Il tema del governo dell’immigrazione è fondamentale per rispondere alla crisi demografica che attanaglia il nostro paese (si vedano Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete, “Italiani poca gente”, Luiss University Press) ma che sta cominciando a serpeggiare anche in grandi paesi come Cina e India, con inevitabili ripercussioni sociali ed economiche. L’apertura delle frontiere coniuga la speranza dei migranti di costruirsi una nuova vita con l’interesse del paese ospite, che può in tal modo soddisfare la sua domanda di manodopera. E’ un bene che Salvini abbia capito che non è più tempo di urlare al lupo: sarebbe ancora meglio se i leader politici di tutti gli schieramenti riconoscessero esplicitamente che l’accoglienza e l’integrazione non sono costi, ma investimenti, da cui tutti possiamo trarre vantaggio.
da Il Foglio, 28 dicembre 2021