25 Aprile 2021
La lettura-Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Tenere chiuse le scuole significa rallentare i processi di apprendimento e tuttavia non è detto che sia quello il costo più rilevante che dovranno pagare le nuove generazioni. È possibile che gli adulti di domani siano tarantolati dall’ansia, che perdano la capacità di fare delle scelte, di considerare rischi e opportunità nel concreto delle loro vite. Frank Furedi, di cui Meltemi ha appena mandato in libreria I confini contano, è professore emerito di Sociologia alla University of Kent. Nel 1997 ha scritto Culture of Fear. Risk Taking and the Morality of Low Expectation. Da anni ci mette in guardia: la società occidentale sta disimparando a correre rischi.
Chiusura di scuole e università, lockdown, una comunicazione spesso ansiogena. Quale crede sarà l’impatto della pandemia sulla psicologia dei più giovani, per cui rappresenta la prima, grande crisi con cui venire alle prese?
«È dall’arrivo del Covid-19, e dalle prime misure di contenimento, che c’è una grande attenzione, perlomeno nei Paesi anglosassoni, sull’effetto che produrrà sui più giovani. Il risultato è un’autentica narrazione della disperazione: sulle spalle dei giovani ricadranno i debiti, ingenti, che gli Stati hanno dovuto contrarre. Le regolamentazioni del mercato del lavoro tendono a proteggere i lavoratori più anziani, mentre per chi ha appena finito gli studi sarà difficile trovare un posto, cominciare una carriera. Siamo immersi in una discussione no stop sugli effetti del confinamento sulla salute mentale. Sembra quasi che si voglia suggerire ai ragazzi che se non si sentono più vulnerabili, più impotenti, più deboli, non sono davvero “normali”. Rischia di essere una profezia che si autoavvera».
È solo una questione di discorso pubblico?
«No, per niente. Il punto è che problemi naturali, a cominciare dal dolore e dallo stress e dal senso di difficoltà che affiora, com’è giusto in momenti come questi, vengono subito visti attraverso il prisma della malattia mentale. Questo accentua una tendenza, non nuova, a interpretare ogni questione esistenziale con le categorie della psicologia. Il guaio saranno gli adulti. Più si convincono che i loro figli sono soggetti passivi, che sono destinati a restare in balìa degli eventi, più ridurranno le loro aspettative. Ciò è deleterio anche per i ragazzi. Si considereranno delle vittime, più che dei protagonisti della propria vita».
Anche in questo caso, la pandemia accelera un trend preesistente. Non da oggi, nei Paesi occidentali c’è una certa tendenza a identificarsi in quanto «vittima» di qualcosa.
«È quella che io chiamo “fossilizzazione dell’identità”. Se una persona si identifica come vittima, struttura la sua identità a partire da ciò che è, da caratteristiche che prende per date e sono considerate immutabili. Chi sa assumersi dei rischi invece di solito costruisce la sua identità a partire da quello che fa, dal modo in cui si è confrontato e si confronta con l’incertezza. Un’identità “fossilizzata” ha il pregio di offrire certezze e conforto, ovviamente».
Ma riduce il senso di essere parte attiva nelle nostre stesse vite…
«I cittadini ormai si definiscono così: è il subire qualcosa, non il farla, quel che conta nel discorso pubblico. Ciò agevola un certo tipo di governo e di ceto politico: quello che, in una crisi come quella scoppiata con il Covid, tende a lasciare poco spazio alla responsabilità individuale».
Le nostre società però si fondano anche sul fatto che le persone si prendono dei rischi. Gli imprenditori, per esempio, se fossero fortemente avversi al rischio non sarebbero imprenditori. Non rischiamo di giocarci la nostra prosperità?
«Anche quando all’imprenditorialità si riconosce che apporta benefici, e quando gli esperimenti vengono riconosciuti come importanti, ciò avviene in un contesto culturale sempre più avverso al rischio. Qualche anno fa facevo delle lezioni in California e sono andato a Palo Alto, nella Silicon Valley. Un luogo di imprenditorialità diffusa. Quando questi imprenditori tornano a casa, però, si comportano esattamente come la piccola borghesia di Milano. Sono ossessionati dalla forma e dalla salute, un supermercato californiano è ormai una collezione di alimenti pensati per coloro che hanno questa allergia e quelli che ne hanno un’altra, si fa di tutto pur di evitare anche il rischio più modesto per il proprio corpo e la propria digestione».
È un effetto collaterale dell’essere ricchi?
«No, non credo. Quello che ci caratterizza oggi è una sorta di “fatalismo high tech”. A dispetto della nostra tecnologia, abbiamo perso da tempo ogni fiducia nella capacità degli esseri umani di prendere le redini del proprio destino. Il problema nasce nell’accademia: è nelle università che più che altrove serpeggia da anni una crescente diffidenza verso la scienza, verso la cultura come artefatto, verso il liberalismo. In breve, una diffidenza per i valori dell’illuminismo. L’ostinazione di provare a migliorare il mondo, pensare il mondo per l’uomo e non viceversa, viene presa come una sorta di hybris prometeica. Ma sappiamo che ci sono state società prospere che erano capaci di prendersi dei rischi. Penso alle città-Stato del Rinascimento italiano. Penso agli ateniesi, la società più ricca dei loro tempi eppure erano dappertutto, sempre pronti a scambiare, a inventare, a spostarsi. A rischiare».
Lei ha scritto che alle leadership politiche di oggi non mancano le informazioni, bensì la capacità di giudizio.
«Ormai abbiamo confuso leadership e management. Si può essere bravi manager senza essere leader. La virtù del leader è prendere l’iniziativa, ha a che fare con il concetto latino di auctoritas. Ma prendere iniziative è difficile nel nostro mondo iper-regolato. L’attributo del leader dovrebbe essere la phrónesis aristotelica, quella saggezza pratica che si matura imparando a fare delle scelte, cioè facendole. Ma scegliere, “giudicare”, vuol dire esporsi. La nostra società tende a sostituire il giudizio dei singoli con delle regole, che rendono inutile ogni discernimento. Le stesse élite hanno adottato come modello di comportamento quello del “bravo gestore” e non quello del leader, che sceglie non solo sulla base delle informazioni che altri gli forniscono, ma anche in base alla sua esperienza, alla sua capacità di giudizio».
Torniamo ai più giovani. La scuola dappertutto è diventata, per un anno quasi, «a distanza». E da vedere se ciò consenta ai ragazzi di apprendere allo stesso ritmo che in presenza. E solo un problema di tecnologia?
«I giovani apprendono molto gli uni dagli altri, dall’interazione con altre persone della loro età. Non è solo una questione di formazione di capitale umano: è il modo nel quale essi apprendono chi sono. La cosiddetta “pressione dei pari”, per quanto esecrata da molti, in realtà è importantissima. È il modo in cui tu impari alcune competenze che si riveleranno più importanti nella vita, è il modo in cui impari a districarti in situazioni socialmente complicate. Startene a casa, interagendo con altri attraverso il computer, non è la stessa cosa, viene a mancare tutta la materialità della dimensione fisica. Non solo: ciò che impari andando a scuola non sono unicamente le informazioni che ti vengono trasferite. Impari a comportarti: svegliarsi a una certa ora, strutturare il tuo tempo, lavorare in vista di una scadenza. Non si tratta di mere nozioni ma di un’esperienza che ti rende la persona che sei. Abbiamo tolto questa esperienza ai ragazzi e non sappiamo quanto ci vorrà perché si riapproprino del tempo perduto».
da La Lettura – Corriere della Sera, 25 aprile 2021