Siamo davvero un Paese irriformabile? Dobbiamo perdere ogni speranza di diventare un Paese moderno ed efficiente? A queste domande cercano di rispondere gli studiosi Alberto Saravalle, professore di Diritto dell’Unione europea all’Università di Padova e Carlo Stagnaro, direttore delle ricerche dell’Istituto Bruno Leoni nel libro Molte riforme per nulla (Marsilio, pp. 256, euro 18), che verrà presentato oggi a Bologna alle 18 alla presenza dell’editorialista del Corriere della Sera, Angelo Panebianco. Le risposte a queste domande, contenute nelle 225 pagine del libro, non ci faranno piacere.
Siamo un Paese irriformabile? Un po’ sì. E lo si evince dal lavoro meticoloso con il quale i due studiosi hanno ricostruito la tela di Penelope delle riforme italiane dal governo Amato fino a oggi. Non è che non sia stato fatto niente, anzi per certi versi è stato perfino fatto troppo, ma il campo di battaglia di riforme, mezze riforme, controriforme non ha nel complesso raggiunto l’obiettivo per una questione semplice: «Le riforme non hanno funzionato perché non le abbiamo volute». O per dirla in altri termini non sono state accompagnate da una cornice, da una visione del mondo che partisse dalle élite per conquistare un pubblico più vasto. Non sono mancati gli uomini, il coraggio, i tentativi. «Le riforme — scrivono Saravalle e Stagnaro — hanno fallito perché la macchina italiana è logora. Le patologie che abbiamo descritto derivano dalle istituzioni, dalla cultura, dalla storia politica; ogni volta che si è presentata la possibilità di porvi rimedio abbiamo scelto di non farlo e ci siamo cullati nell’illusione che, prima o poi, sarebbe arrivato l’Uomo della Provvidenza».
Alla fine in un certo senso quell’uomo è arrivato, si chiama Mario Draghi e dopo aver trascinato il Paese fuori dalla pandemia ha davanti la sfida della vita del Pnrr, ma questa è un’altra storia, seppure la più importante e la riprenderemo alla fine del ragionamento.
Nel libro si affrontano i mali storici di partenza di quella che veniva definita la «pecora nera dell’Eurozona» le incertezze del sistema giudiziario, la bassa qualità della pubblica amministrazione, la rigidità del mercato del lavoro la spesa insufficiente in ricerca e sviluppo.
Gli altri problemi? La difficile fase di execution dopo le riforme, la tendenza dei politici italiani (ogni riferimento alla celebre frase di De Gasperi non è puramente casuale) a preferire il giudizio delle elezioni a quello della storia, l’incapacità di assumere in prima persona il peso delle riforme («il vincolo esterno al posto della leadership»). Il pregio di questo libro è quello di ricordare una stagione di riformismo che oggi sembra lontana (la crisi e la pandemia hanno cambiato il paradigma) e mettere ordine, fare il punto sistemico delle riforme realizzate, fallite o solo tentate.
Non è andato tutto male, l’Italia ha fatto bene sul tema della concorrenza, delle liberalizzazioni e anche delle privatizzazioni. Interessante e in qualche modo emblematica la metamorfosi di Pierluigi Bersani, l’uomo delle lenzuolate, delle liberalizzazioni e delle riforme che da molti anni pare aver abbandonato quelle posizioni. C’è spazio per la vicenda delle concessioni balneari in applicazione della direttiva Bolkestein (questione ora forse definitivamente risolta) e per raccontare le riforme del mercato del lavoro e i tanti tentativi di riformare la pubblica amministrazione. Non è stata naturalmente una questione di centrodestra o di centrosinistra, il partito trasversale di chi ha frenato le riforme era annidato ovunque. Tanto che il paradosso è che la stagione delle privatizzazioni finisce praticamente con la seconda stagione di Berlusconi, quello che doveva fare la rivoluzione liberale, quando Giulio Tremonti trova la gallina dalle uova d’oro nella Cassa Depositi e prestiti, ne trasforma la natura e inizia un’altra stagione.
Oggi il contesto è completamente mutato e la crisi economica prima e il Covid poi hanno cambiato il paradigma e la presenza forte dello Stato in settori strategici non è più temuta ma auspicata. Ma siamo a una curva interessante della storia con l’imponente piano di ricostruzione e di resilienza, un piano che vale da solo l’11% del nostro Pil. E su cui ci giochiamo il futuro. Certo l’anno prossimo si vota e del doman non v’è certezza ma anche questa è un’altra storia.
dal Corriere di Bologna, 20 maggio 2022