Ammesso che si possa correttamente parlare di diritto di sciopero per i magistrati, quello di ieri è stato qualcosa in più. Insieme all’astensione dalle funzioni giurisdizionali, l’Associazione nazionale magistrati ha infatti organizzato una serie di manifestazioni e assemblee in molte città, con l’intento dichiarato di spiegare pubblicamente le ragioni del no alla riforma costituzionale dell’ordinamento della magistratura. Per farlo, ha coinvolto figure esterne al mondo della giustizia, tra cui docenti, giornalisti e esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo. Il fatto che, in uno di questi incontri, un attore come Antonio Albanese abbia letto Calamandrei dimostra che l’Anm non ha solo voluto esprimere una posizione «sindacale» verso il disegno di legge, come avvenuto in passato anche nei riguardi della riforma Cartabia.
Le manifestazioni di ieri appaiono invece il momento zero di una possibile campagna referendaria, alla quale l’Anm ha già dichiarato di voler partecipare attivamente, qualora la legge costituzionale venisse approvata in via definitiva. Ma, ancor più, sembrano un tentativo di recupero di una credibilità e un’autorevolezza compromesse agli occhi dei cittadini. D’altronde, lo sciopero di ieri è stato titolato in «difesa della Costituzione». Implicito era il sottotitolo relativo alla riforma della carriera dei giudici, ma implicito sembra anche il sottotesto relativo all’inquieto rapporto tra politica e magistratura.
Negli ultimi mesi, abbiamo assistito a una nuova acme nel confronto — se così si può dire — tra i due poteri dello Stato, le cui responsabilità sono purtroppo equamente distribuite. Da Open Arms ai trasferimenti in Albania, da Almasri a Delmastro fino a Santanchè, dall’abbandono dell’aula da parte dei giudici durante l’intervento del ministro Nordio all’inaugurazione dell’anno giudiziario fino allo sciopero di ieri, il rimpallo tra azioni della magistratura e reazioni politiche (e viceversa) è uno degli elementi di maggior confusione nella distribuzione delle funzioni costituzionali.
Dinanzi a questa confusione, ai comuni cittadini viene chiesto di scegliere se sia più indice di democraticità un governo che, in nome del popolo, affronta l’interpretazione delle leggi, o una magistratura zelante nel garantire il rigoroso rispetto delle procedure. Come ha scritto ieri da queste pagine Edmondo Bruti Liberati, la protesta dei giudici si colloca ben al di là della separazione della carriere. Nell’invocazione dell’indipendenza dei giudici e della loro attività, c’è il dilemma di quale sia il confine del rispetto che gli uni devono agli altri.
Non si tratta del vecchio scontro ideologico sulle toghe rosse, perché la questione non riguarda gli orientamenti politici, ma una più profonda delegittimazione reciproca, che minaccia l’equilibrio tra le funzioni costituzionali e rischia di ridursi a una deleteria contrapposizione, quasi infantile, su chi abbia iniziato per primo. Con opportunità istituzionale, il presidente Mattarella, presenziando il Consiglio superiore della magistratura il giorno prima dello sciopero, si è limitato a poche parole di invito alla serenità della vita istituzionale. E bene ha fatto la presidente Meloni a stiepidire il clima convocando i vertici dell’Anm a Palazzo Chigi per un confronto sulla riforma costituzionale.
Dal suo punto di vista, potersi intestare un’apertura al dialogo vale il prezzo di qualche modifica al testo. Il problema è che la posta in gioco non è solo la riforma della magistratura. È il recupero di un riconoscimento reciproco dei ruoli e dei limiti, compromesso dalla perdita di credibilità e fiducia che corre tra i due poteri.