30 Aprile 2018
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Lo scoop realizzato da Luciano Capone in merito alla riscrittura del programma elettorale del Movimento Cinque Stelle ha richiamato l’attenzione sulla relazione tra i rappresentanti e i rappresentati. Scoprendo che nel sito dei “grillini” il programma esibito ai votanti prima delle elezioni era stato poi modificato al fine di facilitare eventuali accordi di governo, il giornalista del “Foglio” ha evidenziato quanto sia debole il legame tra eletti ed elettori e come, in sostanza, i primi abbiano le mani libere. Nulla di nuovo.
Da anni ogni gruppo politico ottiene voti sulla base di un progetto, ma poi si sente autorizzato a fare tutt’altro. Non tanto diverso dal comportamento dei cinquestellati fu quello di Silvio Berlusconi al tempo del celebre “patto con gli italiani”; per non parlare della Lega, che all’articolo 1 dello statuto ancora parla di “indipendenza della Padania” e che pure, oggi, ha progetti assai diversi. Non sempre è stato così.
Alla fine dell’età medievale la rappresentanza nasce di fronte all’esigenza di mandare qualcuno a difendere interessi ben precisi al cospetto di un principe. In quella fase della storia delle istituzioni che coincide con il cosiddetto “Stato dei ceti”, un potere centrale incapace di imporre la propria volontà all’aristocrazia e agli altri gruppi sociali preminenti pensò di convocare a sé delegati di questa o quella frazione della società, così da negoziare con loro.
Il celebre “no taxation without representation”, ben prima di spingere la società civile a ottenere una rappresentanza in virtù dei contributi versati, stava proprio a indicare come la convocazione dei diversi gruppi sociali fosse condizione, agli occhi del re, per ottenere i denari necessari a condurre le guerre. L’assolutismo proverà ad archiviare i parlamenti, che in realtà non scompariranno mai dalla scena inglese e torneranno a giocare un ruolo, in Francia, quando re Luigi XVI tenterà di risollevare le sorti del regno convocando gli Stati generali.
In origine, comunque, avevamo soprattutto monarchie bisognose delle risorse necessarie a pagare i soldati. Quando gli eletti erano però inviati nelle assemblee rappresentative, essi ricevano un mandato ben preciso e, spesso, la loro delega era revocabile. Mentre in varie costituzioni del nostro tempo (tra cui l’italiana) i parlamentari non hanno vincolo di mandato e quindi decidono come vogliono su qualsiasi tema, inizialmente la delega era di tipo privatistico. Il mandante feuda tario, borghese o ecclesiastico individuava un proprio mandatario, che era vincolato alla volontà di chi l’aveva scelto.
Com’è andata a finire lo sappiamo: i rappresentanti hanno quasi totalmente espropriato i rappresentati, anche perché è venuta meno la possibilità di revocare l’incarico. Mentre in ogni momento possiamo liberarci del commercialista se non siamo del tutto soddisfatti da quanto fanno, la stessa cosa non può accadere se chi deve difenderci nelle assemblee rappresentative non si comporta come dovrebbe.
Oltre a ciò, bisogna tenere presente che i nostri sistemi politici si sono imposti adottando il voto segreto, che ha marginalizzato il voto palese. Oggi sembra inimmaginabile che si possa votare diversamente, anche se in talune circostanze la decisione è pubblica: nelle assemblee condominiali come nelle riunioni dei dipartimenti universitari. Da tempo è però prevalsa l’idea che il voto segreto impedisca che qualcuno minacci qualcun altro, limitando la libertà di scelta del votante. L’urna elettorale nasce per proteggere anche chi non avrebbe il coraggio di formulare apertamente, e al cospetto di tutti, la sua volontà.
Ancora nella seconda metà del XIX secolo, però, c’era chi contestava la segretezza del suffragio. Secondo Lysander Spooner, ad esempio, non ci può essere una vera delega senza un rapporto trasparente tra chi sceglie e chi è scelto. Per questo giurista americano di grande originalità, ignorare i nomi di quanti hanno scelto il presidente faceva degli Stati Uniti una cospirazione segreta, che crea un clima di totale irresponsabilità. Nessuno è chiamato a rendere conto della sua scelta e questo anche quando milioni di tedeschi nel 1933 scelgono Adolf Hitler e causano un gran numero di lutti e disgrazie.
Noi stessi non sappiamo chi abbia scelto i parlamentari italiani. Conosciamo il risultato finale per ogni circoscrizione, ma non sappiamo quali elettori abbiano avuto il merito (o la colpa) di fare eleggere Luigi Di Maio a Pomigliano oppure Matteo Salvini in Calabria. In sostanza, il dispiegarsi della modernità ha fatto sì che il rapporto tra eletti ed elettori si sia indebolito sempre di più.
Quando a fine Settecento un grande protagonista dell’Inghilterra del tempo e formidabile pensatore, Edmund Burke, sosterrà di rappresentare a Londra non solo il collegio, ma l’intera nazione nel suo insieme, il legame tra rappresentanti e parlamentari si farà ancora più debole.
Come si può riannodare questo rapporto di dipendenza dei politici dagli elettori? Non è facile dirlo, tanto più che la classe politica è felice di non dover rispondere a nessuno. Ma una parziale soluzione può essere individuata in quella localizzazione del potere che obbliga gli amministratori a guardare in faccia i propri amministrati e, di conseguenza, a render loro conto di quanto stanno facendo.
Da La Provincia, 29 aprile 2018