27 Dicembre 2017
Il Foglio
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Al direttore.
Davvero, come scrive Galli della Loggia (“Le regole senza più la sanzione”, Corriere della Sera 18 dicembre) – “gli italiani sono in […] larga misura ostili al mercato”? Dipende dalla definizione che si dà di mercato: che non è un mezzo per realizzare giustizia sociale, promuovere la crescita, favorire l’innovazione, né per qualsiasi altro fine. Il mercato è uno strumento per trovare i prezzi delle cose. L’opposto è lo statalismo, in cui è il governo a fissare i prezzi. Noi ne abbiamo avuto un assaggio quando lo Stato possedeva un buon 50 per cento dei mezzi di produzione: dubito che chi per spender meno cambia la sim del suo telefonino, o confronta offerte di viaggio aereo, desideri ritornare ai tempi in cui il vettore era solo Alitalia, il telefono solo Stet, e per avere un allacciamento elettrico bisognava attendere mesi. E infatti Galli della Loggia precisa: “Ostili, per come il mercato funziona qui da noi”.
Il mercato funziona male quando gli è impedito di fare il suo mestiere, trovare i prezzi. Succede quando il mercato o non c’è, perché lo Stato è sostanzialmente monopolista (Poste, servizi comunali, scuole, sanità), oppure non funziona, perché lo stato non lo consente temendo di inimicarsi interessi organizzati. Sono quelli di alcune categorie (notai, farmacisti, taxisti, albergatori), e quelle di alcuni sindacati, quando proteggono i pensionati o pensionandi a scapito dei giovani, quando difendono gli insider “proprietari” del proprio posto di lavoro contro gli outsider, quando sostengono i dipendenti pubblici che rifiutano di essere premiati in base al merito. I deficit di mercato che ne risultano sono, vedi caso, proprio quelli che denunciano Giavazzi, Panebianco (e qualcun altro).
Com’è possibile che siano queste le cause dello “statalismo” per una “larga misura degli italiani”, quorum anche Galli della Loggia? Le privatizzazioni, che critica, furono l’esito della vendita (con procedura a evidenza pubblica) a soggetti necessariamente “nuovi” del settore (Benetton, Agnelli), poiché lì la presenza dello Stato aveva precluso l’imprenditoria privata. Nell’interesse dei cittadini tutti, perché così prima si evitò che insieme all’Iri fallisse l’Italia e poi si riuscì a entrare nell’euro; con l’approvazione dei risparmiatori che corsero a vendere i BOT per comprare le azioni delle aziende privatizzate, tutelati anche dall’obbligo di inserire amministratori indipendenti nei cda.
Le autorità di regolazione, che giudica “quasi sempre inette”, sono articolazioni della Pubblica amministrazione: sarebbero meno “inette” se, invece che da votati dal Parlamento, fossero formate da burocrati? Le regole del mercato del lavoro che hanno riportato nella media europea il numero di ricorsi in giudizio, riguardano il reintegro in casi di recesso dal contratto per giustificato motivo economico: cosa c’entrano con le condizioni di lavoro in settori “nuovi” dove scioperano magazzinieri di Amazon, corrieri di Deliveroo e piloti di low cost? Da sempre miglioramenti di salario e di contratto se li sono guadagnati i lavoratori lottando, non aspettando che fossero octroyé dallo Stato: sbagliavano?
Da dove viene questo nostro surplus di statalismo? Tra protezionismo, corporativismo, autarchia, partecipazioni statali, interventi straordinari, presenza del maggior partito comunista di occidente, questo paese di mercato ne ha conosciuto poco; perché la parola “concorrenza” entrasse, per giunta indirettamente, nella sua Costituzione ha dovuto attendere più di mezzo secolo; è per path dependance che molti, non per caso soprattutto in certe zone del paese, siano portati a credere che lo statalismo sia “il solo mezzo per porre rimedio a una situazione di svantaggio”. Invece offrono solo all’opposizione, soprattutto a quella a corto di altri argomenti, il pretesto per cavalcare, e ingigantire, questo sentimento. Un po’ come succede con l’uscita dall’euro.
da Il Foglio, 23 dicembre 2017