Globalizzazione da proteggere

Con l'inflazione a due cifre, ridurre il raggio degli scambi possibili non è una grande idea

19 Settembre 2022

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Economia e Mercato

L’Italia è quel Paese dove, in campagna elettorale, i nemici della globalizzazione attaccano le sanzioni alla Russia e gli amici della globalizzazione predicano il friendshoring, cioè la riduzione del perimetro degli scambi internazionali ai Paesi «amici» e in qualche modo politicamente omogenei. Che il mondo debba evolvere in questa direzione è dato per scontato da molti, perlomeno da molti di quelli che scrivono sui giornali. Non è detto sia così, e non è detto che sia auspicabile.

Nel dibattito pubblico, sembra quasi che il fatto che si scambi con un Paese o con un altro rappresenti una sorta di capriccio. La globalizzazione è raccontata essenzialmente come una scelta politica. Una scelta politica, indubbiamente, fu fatta nel 1947 con il Gatt e poi con gli accordi multilaterali degli anni Novanta. Ma, sotto il profilo delle regole, non abbiamo fatto molti progressi negli ultimi vent’anni. I negoziati di Doha, iniziati nel 2001, non hanno trovato una conclusione positiva e da allora siamo fermi.

L’interconnessione fra le nostre economie non dipende solo dal quadro normativo, ma viene da una rete di convenienze, che si è stretta nel corso degli anni, fra imprese di diversi Paesi. Continuiamo a pensare allo scambio internazionale come se avesse a che fare esclusivamente coi prodotti che troviamo sugli scaffali dei negozi. La globalizzazione oggi riguarda soprattutto quelle cose che servono a fare altre cose: non beni che vengono importati e poi venduti al consumatore (come i famigerati jeans cinesi) bensì materie prime, componenti, «pezzi» che poi contribuiscono alla realizzazione di altri beni. Al punto che discutere della «nazionalità» di un bene è abbastanza aleatorio. Il made in Italy è frutto di un processo creativo che aggiunge valore a un capo di abbigliamento o a un mobile ma non coincide con l’italianità di ogni momento del processo produttivo.

Friendshoring?
Imprese e imprenditori “combinano” fattori produttivi diversi e sono perennemente alla ricerca di sostituti. Le loro relazioni coi fornitori sono definite contrattualmente, ma ciò non significa che ciascuna impresa non sia sempre alla ricerca di alternative più convenienti: di metodi produttivi più semplici, di materie prime più economiche, di componenti più adattabili. Simmetricamente, di clienti disposti a pagare di più per quel che offre.

La globalizzazione per le imprese attraversa tutto il processo produttivo e ne consente continue messe a punto. Per questa ragione il cosiddetto friendshoring è molto più complicato e controproducente di quanto appaia. La crisi Covid ha dimostrato quanto agili siano le catene di fornitura. Ricorderete che a marzo 2020, sostanzialmente, per la globalizzazione suonavano le campane a morto. L’idea prevalente era che le relazioni fra imprese di diversi Paesi fossero destinate a una crisi inevitabile e che le merci avrebbero scarseggiato, sulla base della convinzione implicita che ciascuno si approvvigionasse di un certo fattore produttivo da un fornitore «insostituibile». Le filiere non sono scolpite nella pietra, le imprese hanno continuato a «sostituire» alcuni dei loro fattori produttivi con altri, dato il contesto, più favorevoli.

Nonostante avessimo scoperto l’esistenza persino di confini fra una regione e l’altra, abbiamo continuato a trovare al supermercato non solo i fiocchi d’avena, ma i nostri fiocchi d’avena preferiti. Le imprese si adattano e lo fanno continuamente, per reagire a cambiamenti che riguardano anzitutto la tecnologia e le evoluzioni della domanda. È diverso però se le decisioni che prendono sono scelte economiche, affinate sul metro delle convenienze, o se sono invece determinate dalla politica. Non che gli adattamenti, in quest’ultimo caso, non avvengano: ma corrispondono all’introduzione di elementi inefficienti del sistema. Se un’azienda è obbligata a scegliere determinati fattori di produzione, anziché altri, perché con questi ultimi non può più intrattenere rapporti di scambio, inevitabilmente i suoi costi saliranno e si rifletteranno nel prodotto che realizza e, in ultima analisi, nel prezzo dei beni di consumo.

Effetto prezzi
In un momento nel quale stiamo sperimentando un’inflazione a due cifre, ridurre il raggio degli scambi possibili non è una grande idea. Non lo è, per utilizzare un’espressione che si vende bene in campagna elettorale, per l’interesse nazionale, anche non curandosi né poco né punto degli effetti su standard di vita e livelli di benessere in altri Paesi. La globalizzazione ha consentito la riduzione della povertà estrema integrando anzitutto i Paesi asiatici nel circuito degli scambi. Escluderli (come vorrebbe chi parla di friendshoring in funzione anticinese) non sarebbe privo di effetti. Inoltre, scambiare solo fra Paesi “amici” significa commerciare soltanto fra Paesi che hanno grossomodo lo stesso livello di sviluppo.

In primo luogo, gli scambi fra chi si somiglia non è detto servano: il lattaio è interessato a comprare dal macellaio e il macellaio dal fruttivendolo. L’economia di un Paese è un organismo complesso ma, inevitabilmente, Paesi simili tendono ad avere produzioni simili. In seconda battuta, non è detto che all’interno di quei Paesi noi possiamo trovare tutto ciò di cui abbiamo bisogno. La globalizzazione ha comportato un certo grado di specializzazione funzionale, fra diversi territori, esattamente come avviene all’interno di un Paese. “Rimpatriare” alcune produzioni può avere senso, ma per altre mancano i fattori produttivi necessari. L’interesse nazionale, comunque lo si intenda, punta in direzione di un Paese più prospero. Rimpicciolire la globalizzazione nella direzione di un mondo più povero.

da L’Economia del Corriere della Sera, 19 settembre 2022

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