Senza globalizzazione non riusciremo a crescere

Le sanzioni creano difficoltà: le imprese devono poter ricostruire le proprie catene di fornitura

18 Marzo 2022

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Economia e Mercato

La globalizzazione non è mai stata un «destino» ma non è nemmeno «destino» che essa venga sepolta nel giro di pochi mesi. In quest’ultimo caso, saremmo nei guai. Se l’Occidente oggi fa la guerra con le sanzioni, in parte è proprio perché il nostro è un mondo più globalizzato di quello di ieri. Esserne esclusi è costoso e su questo costo si fa leva per colpire i russi. Ovviamente, le sanzioni impediscono gli scambi, ma se uno scambio non ha luogo, non ci perde soltanto il venditore. Se proibiamo di vendere focaccia, a rimetterci sono i panettieri ma anche, con loro, tutti quanti ne compravano non per simpatia verso il fornaio, ma perché di loro gusto.

Il commercio mondiale ha retto all’urto del Covid, a dispetto di chi già ne profetizzava la fine con la pandemia. In questi due anni, dovremmo avere imparato che le imprese sono straordinariamente efficienti nel ricostruire le proprie catene di fornitura. Devono però essere lasciate libere di farlo: di cercare i fattori produttivi di cui hanno bisogno. Sanno farlo molto meglio loro che politici o analisti.

Si tende a pensare che basti un tratto di penna del governo per renderci indipendenti sul piano energetico. Ovviamente, non è così ma ancor più curioso è pensare che sia sufficiente una legge perché impariamo a fare cose che richiedono esperienza e competenze, che si tratti di microchip o di particolari produzioni agricole.

La nostra è un’economia a divisione del lavoro complessa: prendiamo in mano il telefono cellulare e pensiamo per un momento a quante persone, in continenti diversi e con competenze e abilità diversissime, hanno dovuto collaborare affinché ci riesca immediato scattare una foto, condividere un video, scorrere una notizia. La parola «complessità» è spesso ridotta a una sorta di slogan ma la differenza fra fenomeni semplici e complessi è questa: nei primi, da una data posizione di partenza, è possibile prevedere i risultati che si genereranno andando a incidere su una sola variabile. Nei sistemi complessi, invece, gli elementi che compongono un insieme più grande non interagiscono in modo lineare e il numero di elementi e la natura delle loro interazioni può essere troppo vasta per consentire previsioni affidabili. Limitare la libertà economica e intervenire nel sistema dei prezzi significa trattare un sistema complesso come fosse un sistema semplice. Questo vuol dire precludersi tutta una serie di strade che potremmo invece trovare, per risolvere problemi. Ciò che perdiamo è la possibilità di innovare e la crescita economica, nel mondo moderno, si fonda sull’innovazione.

Non è il momento di rassegnarsi alla stagnazione. Il rischio di recessione è reale e, mentre non sappiamo come evolverà il conflitto, è abbastanza sicuro che ci troveremo nel mezzo di una crisi migratoria che ci toccherà ancora di più di quella siriana. All’epoca, la commozione generale lasciò presto spazio al trionfo delle istanze anti-immigrazione. La risorsa fondamentale è sempre l’essere umano e magari un ucraino che arriva oggi in Italia varrà al nostro Paese una grande scoperta scientifica o una straordinaria intuizione imprenditoriale. Ma in un Paese che arranca, i migranti sono considerati dei pericolosi avversari in una lotta tra poveri. «Chiusura» economica e sfiducia nel futuro si rafforzano a vicenda.

I prossimi mesi vedranno probabilmente una tendenza parallela al rialzo dei prezzi e al ristagno dell’economia. Del primo problema è bene che si occupino le banche centrali, il governo dovrebbe invece affrontare il secondo. Non è il momento di chiudersi a riccio ma al contrario proprio ora dobbiamo liberare la nostra economia dai troppi vincoli, per consentire che emergano soluzioni innovative, di cui abbiamo tanto più bisogno alla luce dei contraccolpi della guerra.

Questa volta non possiamo aspettarci che la spinta alla crescita venga da nuove risorse pubbliche. Se mai dovesse esserci un bis del Recovery Fund, questa volta a essere privilegiati sarebbero i Paesi dell’Est, quelli più vicini all’emergenza. Inoltre, un contesto come l’attuale esige un ripensamento della spesa pubblica: per esempio, perché le spese militari – e quelle sanitarie – sono destinate ad aumentare.

Paradossalmente è proprio oggi che servono più che mai quelle politiche di liberalizzazione che alcuni vorrebbero seppellire, con gli ultimi trent’anni.

dal Corriere della Sera, 18 marzo 2022

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