"Gomorra" e il potere da Marsilio da Padova a Ciro da Secondigliano

Cosa c'entra il grande pensatore del Trecento con la serie televisiva italiana?

1 Agosto 2016

Il Foglio

Massimiliano Trovato

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Ci sono due cose più napoletane della pizza di Sorbillo e del lungomare di Posillipo: i nomi Gennaro e Ciro. Se nasci Gennaro, hai dalla tua la tradizione sacra del patrono coagulopatico, ma potresti finire schiacciato da vezzeggiativi emasculanti: faresti – insomma – meglio, Genny bello, a bilanciarli col cognome giusto. Se nasci Ciro, dietro di te si staglia la possanza dell’impero di Persia e al solenne bisillabo non dovrai neppure accostare un cognome – un nome d’arte, semmai: il Grande, l’Immortale. Il Genny di “Gomorra” è un personaggio sempre in ebollizione ma periferico rispetto all’orbita delle vicende; l’Immortale, al contrario, è il vero barometro del potere della serie.

Nella prima stagione, quando ancora è fedele al clan dei Savastano e la sua bromance con Genny non è stata compromessa dalla velenosa Imma, Ciro invoca il passaggio di consegne del boss incarcerato, perché «nun ce sta cchiù ‘o bastone… ‘e pecore, senz’ ‘o cane ‘e guardia, se ne vanno pe’ cazzi llor’»; nella seconda stagione, dopo la trasmigrazione verso il campo degli scissionisti, lo ritroviamo alfiere della democrazia e ambasciatore degli Stati Uniti di Scampia-Secondigliano. I soliti bempensanti rilevano l’assenza dello stato in “Gomorra”: un’osservazione più accorta indica che è la camorra stessa a farsi stato.

Novello Marsilio da Padova, Ciro insegue la difesa della pace con ogni mezzo. Come per il grande pensatore trecentesco, è difficile unire i puntini della sua ispirazione. Al Padovano gli interpreti moderni hanno attribuito – alternativamente – le invenzioni del positivismo giuridico e del razionalismo politico, dell’assolutismo e della divisione dei poteri, del contrattualismo e del comunitarismo. Questi riconoscimenti contraddittori si potrebbero ricondurre a una matrice comune, affermando che, dello stato moderno, Marsilio fu architetto – forse il primo – ma non ingegnere. Il tema era escogitare uno strumento che potesse arginare i conflitti, non dargli una forma specifica. Le medesime oscillazioni indirizzano il percorso di Ciro.

Don Pietro è l’impeccabile incarnazione del «governo numericamente uno» marsiliano: un sovrano tanto avverso alla frammentazione del potere da sacrificare la sopravvivenza della moglie e il rapporto con il figlio al proprio progetto di comando solipsista. A Gennaro lo spiega chiaramente – «Secondigliano è ‘a mij, e ‘e nisciun’ato» – e, commentando con disprezzo i tentennamenti dello schieramento avverso, osserva che «’a democrazia nun funziona pecché e can’ se mangiano fra di loro si nun ce sta ‘o bastone»: cambiano le coordinate etologiche, torna l’immagine bucolica. Ciro comprende che l’isolamento del Savastano maggiore – «vo’ cummanna’ isso sulo! Nun vo’ nisciuno avvicino, manco ‘o figlio!» – può essere la sua rovina.

L’Immortale cambia partito per ottenere la pace tanto agognata, prima ancora che per ristorare le proprie ambizioni frustrate. Alla corte di Conte, si fa promotore di un nuovo modello amministrativo: l’alleanza democratica tra le famiglie. L’aporia tra l’intento parificatore di quel riassetto e la primazia comunque riconosciuta a Don Salvatore si risolve in tre puntate con un regicidio brillantemente orchestrato. In fin dei conti, «chi cummanna nun s’ha da maje scurda’ ‘na cosa: ‘o potere sujo sta dint’e mmane ‘e chille ca stanno sotto a isso» – un richiamo al consenso dei governati che non è estraneo alla lezione di Marsilio.

L’errore di Ciro è quello di personalizzare la questione del potere. Decapitare l’organizzazione non basta a sgrassarla dalle logiche di dominio che l’innervano: lo dimostrano gli imbarazzi per la redistribuzione integralistica dei profitti e i malumori attorno ai costumi sfarzosi de ‘O Principe, il Ferran Adrià della cocaina. Tra la lettura monarchica e quella democratica, in altre parole, non s’affaccia mai un’alternativa liberale; i mezzi politici non lasciano mai spazio a quelli economici. Un’ovvietà, se pensiamo all’influsso pervasivo della coercizione nel sottomondo criminoso, ma anche una tranciante smentita del fondamento del verbo savianeo: l’idea che nella mafia si possa riconoscere il più perfetto esemplare di capitalismo realizzato – un’equazione già ottimamente falsificata da Piero Vernaglione in un breve scritto pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni.

Qualche settimana fa, Edoardo Brugnatelli – l’uomo che, in Mondadori, reggeva il forcipe mentre Gomorra veniva alla luce – ha pubblicato stralci della corrispondenza relativa alla preparazione del volume. L’autore si riproponeva di «confrontar[s]i anche con la dottrina [per] descrivere la capacità della camorra di realizzare le tesi di John Nash, considerando l’economia della collaborazione superiore e maggiormente conveniente della teoria del libero accrescimento individuale di Adam Smith». Ben strana economia, quella in cui i prezzi si calcolano a colpi di mitra; ben strana collaborazione, quella in cui l’offerta è stritolata specularmente dal potere che s’afferma legittimo e da quello che non si pone il problema.

Al netto di qualche riferimento occasionale – Don Salvatore inneggia al liberismo sfidando i sodali a rifornirsi altrove; Don Pietro s’inventa la consegna a domicilio perché «è ‘a dummanna ca fa ‘o mercato» – la serie respinge la confusa e superficiale interpretazione economicistica del libro, per concentrarsi sulle ben più ricche dinamiche politiche delle strutture camorristiche. Dopo aver deposto il sovrano democratico, Ciro – con l’aiuto di Genny – toglie di mezzo anche il vecchio monarca. Questa è la principale controindicazione del potere: più ne hai, più è probabile che qualcuno te lo voglia sfilare di mano. In politica, «’a fine r’o juorno sta tutta ccà».

Da Il Foglio, 31 Luglio 2016

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