10 Marzo 2014
Il Sole 24 Ore
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Gli inglesi votarono contro Winston Churchill che aveva salvato il mondo dalla rovina, gli argentini hanno eletto due volte Christina Kirchner. Siamo davvero noi elettori le persone giuste per scegliere «chi deve comandare»? Ilya Somin ci costringe a fare i conti con questa imbarazzante domanda in un libro esemplare per chiarezza e sobrietà, Democracy and Political Ignorance: Why Smaller Government is Smarter.
I teorici della democrazia presumono che i governati siano in grado di fare scelte consapevoli e informate. Che richiedono una certa conoscenza dei programmi elettorali, avere un’idea non troppo approssimativa delle norme e dello stato economico del Paese, e saper stimare l’affidabilità di un candidato sulla base di ciò che ha fatto in passato. Si tratta di un investimento di tempo notevolissimo, a fronte di un ritorno pressoché inesistente.
Tranne che in contesti davvero ridotti, è pressoché impossibile che il voto di un singolo conti qualcosa. Di norma le persone dedicano molto più tempo a informarsi sulle caratteristiche di un paio di scarpe o di un telefono cellulare, di quello che impiegano per leggere di politica. Questo non significa che pensino che uno smartphone sia più importante del futuro del Paese in cui vivono. Ma se comprano un telefono che non fa al caso loro, ne pagano immediatamente le conseguenze.
«Gli elettori hanno scarsi incentivi ad acquisire conoscenza politica allo scopo di prendere migliori decisioni elettorali», spiega Somin. Inoltre «essi hanno l’incentivo ad essere irrazionali nel modo in cui analizzano le informazioni acquisite». La politica somiglia molto alla prosecuzione del calcio con altri mezzi: ci si divide per appartenenze, si eredita il partito come la squadra del cuore. Non è possibile fare gol, determinare direttamente l’esito della sfida: quello sta ai ventidue che sono in campo. Ma ci si può sgolare in curva, dare la colpa all’arbitro, sviluppare ogni sorta di teoria sull’indegnità morale dell’avversario.
Secondo numerose ricerche, le persone più politicamente informate sono proprio quelle più “tifose”. Ed esattamente come gli ultrà non mettono ciò che apprendono al servizio di un giudizio razionale e freddo, lo usano invece per confermare le proprie antipatie. Gli elettori “che si spostano” paiono essere invece i meno informati: nel loro scegliere “al di là delle ideologie” c’è più superficialità (l’improvvisa simpatia per un leader) che attenta meditazione sulle alternative disponibili. È un quadro che appare problematico sia per chi crede che il voto sia un dirittodovere, sia per chi (come i filosofi Jason Brennan e Michael Huemer) ha al contrario sostenuto la tesi che se c’è un dovere, è quello per le persone politicamente disinformate di non votare, contribuendo a scelte per le quali non sono attrezzate. Infatti, se i più consapevoli sono anche i più tifosi, è difficile che possano produrre scelte equanimi.
Che fare, allora? Si potrebbe limitare il suffragio, oppure istituire una sorta di “patente” per elettori: in molti Paesi, gli immigrati sono costretti a passare un esame, che ha per oggetto storia e istituzioni, per ottenerne la cittadinanza. Perché non farlo anche per chi ci è nato, in quel Paese, ma ambisce a esercitare i suoi diritti politici? Si potrebbe sussidiare una migliore informazione su questi temi, idea che ha scarsa fortuna, perché “occuparsi della cosa pubblica” sarebbe un dovere morale e non un uso come gli altri del proprio tempo. Qualcuno cerca di portare soluzioni e proposte specifiche all’attenzione del pubblico, altri sognano che l’offerta mediatica cambi radicalmente.
Tutte queste riforme, che hanno per oggetto la domanda politica, appaiono di ardua realizzazione. Per Somin, l’ignoranza politica è razionale, sconfiggerla richiederebbe nientemeno che esseri umani nuovi di zecca. Se ne possono però mitigare gli effetti. Attraverso le istituzioni: per esempio con il federalismo. «Il federalismo consente ai cittadini di votare con i piedi, e i votanti coi piedi hanno incentivi molto più forti a prendere decisioni bene informate». La competizione fra giurisdizioni secerne informazioni su quello che le une e le altre consentono, la ridotta scala permette una valutazione puntuale della capacità della politica di venire incontro alla domanda di servizi.
Nota Somin che fra il 1880 e il 1920, quasi il 10% della popolazione di colore negli Stati Uniti si spostò dagli Stati del Sud a quelli dell’Ovest e del Nord. Persone poco scolarizzate, con scarsissimo accesso all’informazione “ufficiale”, riuscirono a muoversi in massa alla ricerca di condizioni di vita più umane. È vero che l’emancipazione sarebbe arrivata non grazie agli stati, ma dal governo federale. E tuttavia, il federalismo diede la possibilità concreta di cercare un miglioramento delle proprie possibilità, prima che un elettorato composto precipuamente da bianchi potesse accettare di percorrere tutta la strada fino ai diritti civili.
L’altro rimedio, sempre parziale, ai guasti dell’ignoranza politica è limitare rigorosamente l’ambito dell’azione collettiva. Più esteso è il perimetro dell’intervento pubblico, e maggiori sono le informazioni necessarie per farsi davvero un’opinione circa il senso e l’attendibilità delle promesse elettorali.
«Il governo che governa meno spiega Somin non è sempre il migliore sotto ogni aspetto. E tuttavia è la forma della democrazia meno vulnerabile all’ignoranza politica».
Da Il Sole 24 ore, 10 marzo 2014
Twitter: @amingardi