19 Giugno 2023
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Per la prima volta da gennaio la Fed non ha alzato i tassi, ma ha fatto sapere che potrebbe tornare a farlo nei prossimi mesi. Mentre la Bce li ha ritoccati all’insù di un altro 0,25%. È abbastanza comune, in questi mesi, ascoltare banchieri centrali che si raccontano come se andassero a traino della situazione economica: quasi che il governo della moneta fosse solo casualmente nelle loro mani. Realtà ritenute onnipotenti o quasi, le banche centrali sembrano in crisi d’identità.
Da quando Paul Volcker mise a freno l’inflazione negli anni Ottanta, hanno goduto di vasto credito presso l’opinione pubblica e la politica, consolidato da due decadi di stabilità dei prezzi. La grande crisi finanziaria del 2007-2008 le ha viste entrare in gioco al culmine della loro credibilità, al timone della Fed c’era il futuro Nobel, Ben Bernanke. Ma «la credibilità è cosa delicata: richiede tempo per essere guadagnata, mentre si può perdere di colpo e allora è ancor più difficile riconquistarla», ammonisce Franco Bruni nel suo nuovo libro, Oltre le colonne d’ercole: Ripensare le regole della politica monetaria (Milano, Egea, 2023, pp. 319).
Il libro di Bruni è davvero esemplare nel tentativo di dare una ricostruzione equilibrata degli eventi degli ultimi anni. L’autore, professore emerito di Teoria e politica monetaria internazionale alla Bocconi e vice presidente dell’Ispi, affianca a considerazioni di teoria economica un’attenta ricognizione dei fattori politici, a partire dalla domanda di certezza e rassicurazione da parte degli elettori, che contrassegnano il mondo post-2008. Bruni sostiene che Fed e Bce abbiano fatto bene ad agire come hanno agito durante la grande crisi finanziaria, così come durante la pandemia. Sottolinea però come non siano state in grado di immaginare una exit strategy alle politiche non-standard (non convenzionali, non ortodosse) che avevano messe in atto.
Nella sua ricostruzione di quanto avvenuto in Europa, Bruni tende a evidenziare come non tutti gli strumenti messi in campo per contrastare la cosiddetta crisi del debito fossero non convenzionali. Ma a interventi di breve durata (come le operazioni di mercato aperto) e di dimensione circoscritta, che non potevano dunque svolgere una funzione di supplenza della decisione politica (chiamata a mettere in ordine le finanze pubbliche o ad accordarsi su cambiamenti della governance dell’eurozona), se ne sono aggiunti altri: operazione di rifinanziamento a lungo termine delle banche (Ltro), non al settore bancario nel suo complesso ma «targeted, fatte per finanziare certe attività che la Bce vuole favorire»; tassi non solo bassi ma negativi; Omt (disegnate ma mai utilizzate); e infine la famosa forward guidance, cioè una politica degli annunci volta a influenzare le aspettative.
Fino al 2014 per Bruni la Bce mise in atto «un misto equilibrato di strumenti più o meno ortodossi». Di lì in poi ha prevalso il Quantitative easing. Il Qe è diverso dall’espansione monetaria ortodossa perché «vuole influenzare durevolmente la liquidità del mercato, con acquisti ripetuti e predeterminati per un periodo lungo diversi mesi o anni; ciò implica l’accumulo di titoli nell’attivo della banca centrale». Il risultato è la dilatazione del bilancio degli istituti di emissione, divenuti, almeno nella nostra parte di mondo, degli obbligazionisti di ultima istanza. Ma altrettanto importante è l’effetto sui tassi: il Qe cerca di abbassare i tassi a lungo termine (con conseguenze sugli investimenti) e, nel momento in cui si concentra sui bond pubblici, riduce il costo d’indebitarsi per gli Stati. Che s’indebitano di più. I critici di queste tendenze sono stati, negli anni scorsi, silenziati dalle stesse banche centrali. In esse ha prevalso un presentismo che, nota Bruni, è alquanto paradossale in istituzioni che a colpi di forward guidance si sono imposte di governare le aspettative.
Soprattutto, ha prevalso una logica di compensazione, negli Usa come in Europa, delle politiche dei governi. Oggi il ritorno dell’inflazione imporrebbe un ripensamento, ma le esitazioni sono molte. Bruni sottolinea quanto sia micidiale l’inflazione nel distorcere l’allocazione delle risorse e risponde a quanti chiedono di non aumentare i tassi perché l’inflazione verrebbe «dall’offerta» (di fonti energetiche e commodities) ricordando che le politiche monetarie ortodosse sono la via maestra per ridurre l’inflazione quale ne sia la pretesa causa.
Con un certo ottimismo, scommette che questa situazione possa aiutare gli istituti di emissione a trovare credibilità. Il guaio è che in parte questa credibilità è stata persa, e con essa l’aura di indipendenza che serve al banchiere centrale per difendersi da pressioni indebite. Dovrebbero sapere tornare alle regole abbandonando la logica dell’eccezione: ma anche si mettessero una cintura di castità, chi crederà mai che non tengano la chiave a portata di mano? È chiaro che come il chirurgo vuole operare e lo scrittore scrivere, l’economista monetario vuole che si parli di moneta. Ma è difficile dare torto a Franco Bruni quando sottolinea come si sia parlato pochissimo di politica monetaria e responsabilità delle banche centrali a partire dalla crisi del 2007-2008. Fed e Bce sono ubique, ma alimentare il mito della propria onnipotenza è rischioso. Essere chiamati in causa sempre e comunque può essere apparso, ai banchieri centrali, un trionfo. Nel medio termine appanna la reputazione dei loro successori. Purtroppo, banche centrali poco credibili accrescono le aspettative di inflazione. Ne abbiamo visto e continueremo a vederne gli effetti.
da L’Economia del Corriere della Sera, 19 giugno 2023