28 Agosto 2023
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
In questa legislatura non ci sarà una riforma delle pensioni. Il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti l’ha detto in modo nemmeno troppo sibillino al Meeting di Comunione e liberazione. Se non è possibile immaginare una riforma «con questa demografia», vuol dire che non è possibile immaginarla nei prossimi cinque anni. Le azioni a favore della natalità promosse dall’esecutivo avranno impatto, se ce l’avranno, in tempi medio-lunghi. Il centrodestra di governo ha messo la sordina alla battaglia anti-immigrazione, anzi ha fatto un «decreto flussi» probabilmente il più realista di sempre, ma è improbabile sia pronto ad accettare il livello, elevato, di immigrati necessario per mettere in discussione l’equilibrio previdenziale.
Giorgetti dovrà scrivere, nelle prossime settimane, una legge di bilancio complicata. A torto o ragione, la prima finanziaria del governo Meloni è parsa un’eredità dell’esecutivo precedente. L’hanno considerata così per primi i partiti di centrodestra, sbalzati nella stanza dei bottoni a pochi giorni da scadenze che non potevano essere eluse. La situazione era propizia per un testo prudente. Meloni aveva sbancato alle urne, Salvini si stava leccando le ferite. La legge di bilancio è stata, anche per questo, tutto fuorché avventuristica. La premier aveva bisogno di un biglietto da visita per partner europei e grandi istituzioni internazionali. Gli alleati erano troppo deboli per contrastarla. Non essendoci scadenze elettorali in vista, il centrodestra ha potuto essere lungimirante, tagliare il superbonus edilizio ed eliminare i sussidi che compensavano in parte le accise sulla benzina.
Ora la situazione è diversa. L’andamento del ciclo politico suggerirebbe al governo di allargare i cordoni della borsa: siamo alla seconda legge di bilancio e se è vero che le elezioni nazionali non sono in vista, lo sono però le europee. Nelle quali ogni partito fa corsa a sé, col proporzionale. Il che suggerisce a ciascuno dei tre leader di intestarsi qualche provvedimento specifico, per il quale gli elettori possano dirgli grazie. Cambia anche il gioco della premier. La popolarità del capo del governo resta alta. Ma se gli elettori di centrodestra cominciano a considerare inefficace, o troppo blanda, l’azione della maggioranza, lo scenario più probabile è quello di un travaso di voti al suo interno, con Salvini che sale nelle preferenze mentre Meloni scende.
Al leader della Lega riuscì esattamente questo gioco, quando governava coi Cinquestelle. La coalizione di oggi è molto diversa da quella di allora: è più coesa e ha forti interessi comuni non solo a Roma ma anche in Regioni e Comuni. E’ improbabile che gli smottamenti al suo interno mandino a casa l’inquilina di Palazzo Chigi. Tuttavia, proprio perché gli elettori possono, senza grossi problemi, cambiare cavallo e spostarsi da Lega a FdI o viceversa, la competizione esterna sarà tanto più accesa quanto più le elezioni si avvicinano.
Giorgetti dovrà fare valere le logiche del lungo termine contro quelle del breve. Un rallentamento dell’economia italiana è nell’ordine delle cose: la spinta del rimbalzo dopo la pandemia si è esaurita e così anche la droga del superbonus. Spendere i soldi del Pnrr si sta rivelando più difficile del previsto e non è detto che si tratterebbe di quell’incredibile volano di crescita del quale si fantasticava. L’inflazione aiuta le casse dello Stato, rendendo più sostenibile il debito, ma, come ha scritto Federico Fubini sul Corriere della Sera, la cassa piange: mancano venti miliardi di entrate fiscali, particolarmente rilevanti sono le mancate entrate Iva.
A livello internazionale, la situazione è delicata. Gli Stati Uniti lavorano da anni per ridurre il loro grado di integrazione con l’economia cinese: dazi, decoupling, chiacchiere di reindustrializzazione. Ma adesso che la Cina sta rallentando, e mentre crescono le preoccupazioni dopo l’istanza di fallimento di Evergrande, siamo costretti ad accorgerci che l’economia non è un gioco a somma zero: meno crescita in Cina non significherà più crescita per noi, ma l’esatto contrario.
È prevedibile che nella maggioranza si alzeranno voci di tutt’altro tenore. Qualcuno vaticinerà che proprio il rallentamento economico porterà le banche centrali a non proseguire con la lotta all’inflazione, a non alzare quindi i tassi, e tanto basterebbe per garantirci tassi di crescita più elevati che consentirebbero al governo di mettere mano al portafogli con più tranquillità. Altri sottolineeranno che i cambiamenti nell’architettura dell’Unione europea hanno reso la prudenza e la stabilità finanziaria démodé, sorpassati dalla possibilità di fare ampio ricorso al deficit in qualsiasi stagione. Qualcun altro estrarrà dal cilindro un equivalente di destra del superbonus: un’altra misura che, ci verrà detto, costa meno allo Stato di quanto non serva a mobilitare risorse private.
Ecco, in questa situazione, fa bene il ministro Giorgetti a pensare ai trend demografici e a ragionare con un orizzonte temporale lungo. Non è questo il momento per comportamenti spericolati e avventuristici. Sarebbe, forse, il tempo giusto per le riforme, per cambiamenti che portino ad alzare un po’ il nostro tasso di crescita nel medio termine, con l’obiettivo di non avere più il fiato corto. Ma quali riforme di preciso voglia fare il governo Meloni, a un anno dalle elezioni non l’abbiamo ancora capito.
da L’Economia del Corriere della Sera, 28 agosto 2023