Nel Federalista n. 78, Alexander Hamilton descrive il potere giudiziario come il più “debole” tra quelli che lo Stato esercita, giacché non ha a propria disposizione la possibilità né di finanziarsi (come il potere legislativo) né di disporre degli eserciti (come il potere esecutivo). Proprio per tale ragione, Hamilton invitava i propri connazionali a non temere l’istituzionalizzazione dell’ordine giudiziario, visto che quest’ultimo sarebbe stato «the least dangerous branch». Redigendo il suo saggio, Hamilton riecheggiava osservazioni già messe a punto dal barone di Montesquieu, il quale aveva addirittura definito il potere giudiziario come “nullo” e i giudici come “essere inanimati” che pronunciano le parole della legge.
Al giorno d’oggi, nessuno può leggere questi passi e credere che rappresentino fedelmente lo stato dell’arte. Mai come nella nostra epoca, una complessa rete di tribunali nazionali e sovranazionali, nonché l’irrompere delle carte dei diritti tanto nei rapporti “verticali”, quanto in quelli “orizzontali” tra cittadini, hanno contribuito a espandere – ben oltre i limiti temuti dagli americani del XVIII secolo – il peso che l’ordine giudiziario ha nella vita pubblica e democratica. Questo fatto quando non accolto, con un misto di rassegnazione e indifferenza, semplicemente come “compiuto” è fonte di accese controversie politico-giuridiche.
Negli ultimi anni, dopo un’ondata di approvazione per quella che pure è una notevole alterazione del tradizionale equilibrio istituzionale, il campo degli “scettici” ha visto allargare le proprie fila. Alcuni testi critici sono diventati quasi dei classici: si pensi, su tutti, allo studio del politologo canadese Ran Hirschl (Towards juristocracy. The Origins and Consequences of the New Constitutionalism), cui si deve la popolarizzazione dell’espressione “juristocracy”. Più di recente, vale la pena ricordare il saggio a tratti iconoclasta del tedesco Bernd Riithers (La rivoluzione clandestina. Dallo Stato di diritto allo Stato dei giudici) e le Reith Lectures dell’ex giudice della Corte suprema inglese, Lord Sumption (L’impero del diritto. Una sfida per lo Stato e per la politica).
A questo elenco si aggiunge ora Sabino Cassese, già giudice della Corte costituzionale e professore emerito della Scuola Normale, con il suo Il governo dei giudici (Laterza 2022). (Il libro sarà presentato, in diretta alle 18.00 di lunedì 11 aprile, sulle pagine Facebook dell’associazione Extrema Ratio e dell’Istituto Bruno Leoni, con la partecipazione dell’autore, in dialogo con Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale, e Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali).
Cassese concentra la propria attenzione sul processo di «giudiziarizzazione» della vita pubblica, rilevando criticamente come l’ordine giudiziario sia diventato parte della governance nazionale, “invadendo” il campo della politica e dell’economia, e come addirittura, in qualche occasione, alcuni settori della magistratura abbiano cercato di fare le veci della politica, quale camera di compensazione dei diversi orientamenti socio-culturali, stabilendo rapporti diretti con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione.
Invero, l’autore evidenzia anche un certo paradosso: se, da un lato, si assiste a una dilatazione del ruolo dei magistrati, dall’altro si a che fare con una crescente inefficacia del sistema giudiziario e disaffezione nei suoi confronti da parte dei cittadini. In questo contesto, allora, è un particolare tipo di magistrato a risultare davvero protagonista della “repubblica giudiziaria”: il rappresentante della pubblica accusa, assurto a figura chiave della vita pubblica italiana, tanto per un’esposizione mediatica senza precedenti, quanto a causa di una politica sempre meno autorevole, incapace di far valere le proprie prerogative costituzionali e incline a delegare la composizione delle questioni e dei conflitti sociali ai tribunali.
È agevole far coincidere l’avvio di questo processo con Mani Pulite, che, trent’anni fa, apparve a molti una rivoluzione necessaria per il rinnovamento del Paese, mentre oggi mostra molti dei suoi limiti e dei suoi effetti collaterali. Benché l’operazione di sua “demitizzazione” sia ancora minoritaria nel paese e nell’opinione pubblica, è ormai chiaro a tanti che l’indagine su Tangentopoli ha prodotto uno slittamento senza precedenti nei rapporti tra politica e magistratura, un terremoto che ha condotto a quello “straripamento” del potere giudiziario, il quale si è nutrito anche di una malintesa concezione di autonomia e indipendenza, trasformatesi, chiosa Cassese, in assenza di controllo e di responsabilità.
Non è troppo tardi per invertire il corso e non è troppo presto per insistere sul cambio di marcia: d’altronde – per riportare la frase di Justice Stephen Breyer, che Cassese ha posto ad avvio del libro in questione – «se il pubblico vede i giudici come politici con la toga, la sua fiducia nelle corti e nello Stato di diritto può solo diminuire».
Da Il Dubbio, 6 aprile 2022