16 Maggio 2021
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Da qualche settimana l’Italia sta facendo esperienza di una forma di governo parlamentare del tutto peculiare. Le dimissioni di Giuseppe Conte e la nascita dell’esecutivo guidato da Mario Draghi hanno mostrato, in effetti, il coagularsi di una maggioranza molto estesa, che coinvolge quasi tutte le forze politiche: da destra a sinistra.
Nel modello di democrazia più classico (quello inglese) una simile soluzione non appare contemplabile. Il motivo di tale avversione a governi di “larghe intese” sta nel fatto che in una simile situazione si assiste al venir meno di un’opposizione. Eppure è sempre fondamentale che, al cospetto di chi governa, ci sia chi esercita una costante verifica della fondatezza e correttezza di ogni decisione assunta.
Nel modello inglese, che non a caso a Westminster vede i banchi della maggioranza contrapporsi anche materialmente a quelli dell’opposizione, è fondamentale che all’interno dell’aula parlamentare sia forte e riconoscibile la voce di quanti avversano le strategie e le scelte del governo.
La spartizione
Maggioranze costruite a quelle che in Germania sono state dette le “grandi coalizioni” rischiano di affermare logiche consociative. In effetti, se viene meno ogni distinzione di ruoli tra quanti interpretano visioni non compatibili, è facile che la politica si riduca a un gioco di spartizione del bottino.
Quando lo scienziato politico Arend Lijphart introdusse questo concetto, volle certamente sottolineare come essa fosse una soluzione volta a evitare tensioni, ma con il rischio di generare un ceto di professionisti della politica orientato a separarsi sempre più dalla società. Il principale pericolo che corre una democrazia senza opposizione è di avere una società sempre più debole e un potere sempre più pervasivo, dato che l’intero concerto delle personalità più autorevoli all’interno della società (dai media ai partiti, dai sindacati agli intellettuali) finisce per convergere nella difesa dell’esistente.
La riscoperta
Eppure c’è una democrazia con radici antiche e che da tempo ha istituzionalizzato l’idea che del governo debbano far parte tutte le principali realtà politiche rappresentate in parlamento. In Svizzera, infatti, la cosiddetta “formula magica” fa sì che i sette dicasteri siano divisi tra i quattro principali partiti politici.
Oggi questo schema assegna due seggi all’Udc (destra), uno ai democristiani e due ai liberal-radicali (centro), due ai socialisti (sinistra). In passato la ripartizione era un po’ diversa, ma la crescita elettorale della destra ha portato a definire questo assetto.
In realtà, questa ripartizione dei seggi ministeriali focalizzata sui partiti racconta soltanto una parte della storia, dato che in Svizzera l’equilibrio tra le diverse culture che si cerca di ottenere non si limita a “pesare” le diverse famiglie elettorali, ma cerca pure di valorizzare le aree linguistiche (con l’idea che francofoni e italofoni debbano essere rappresentati in misura un po’ maggiore rispetto alla loro consistenza numerica), le tradizioni religiose e, da qualche tempo, anche i distinti generi.
D’altra parte, quella elvetica è una società composita e soltanto questa strategia che punta a coinvolgere ogni sensibilità nella gestione della cosa pubblica è in grado di evitare tensioni eccessive che potrebbero mettere in discussione la solidarietà tra le diverse componenti. A questo punto, però, c’è da chiedersi perché la Svizzera sia “consociativa” senza che questo comporti conseguenze particolarmente negative.
Di fronte al governo di Berna manca una vera opposizione parlamentare, eppure questo non conduce ad alcun dispotismo dell’esecutivo. Per quale ragione? È probabile che i principali motivi del buon funzionamento del sistema politico svizzero siano da riconoscere nel federalismo e nella democrazia diretta.
La consociazione svizzera non ha nulla di catastrofico perché in quel Paese il potere politico è disperso. Il primo fondamentale contrappeso all’esecutivo federale è da individuare in quei cantoni (e pure in quei comuni) che in Svizzera godono di una capacità di autogoverno molto ampia. Anche se manca un “governo ombra” di stampo britannico, è del tutto evidente che in ogni sua decisione il governo di Berna si espone alle critiche di tutti quei poteri locali che mal sopportano ogni ingerenza del potere centrale.
Per giunta, si può sotto certi aspetti guardare al governo federale come al risultato di una delega, che periodicamente viene rinnovata ma di cui non si può abusare. In ambito fiscale, ad esempio, ogni 25 anni è necessario che l’autorizzazione concessa a Berna di imporre proprie imposte sia confermata, tramite il voto popolare, da una maggioranza favorevoli di elettori e di cantoni.
Un ulteriore contrappeso di cruciale importanza è dato proprio dalla democrazia diretta. In un certo senso si può affermare che, in Svizzera, l’assenza di una consistente minoranza in parlamento è compensata dal fatto che la vera opposizione è il popolo.
Dato che i cittadini sono convocati quattro volte all’anno per esprimersi su questioni cruciali (anche in materia fiscale e in politica internazionale, ciò che in Italia è proibito dalla costituzione), ne discende che i sette ministri sono costantemente esposti a una censura ben peggiore di quella che può venire da eventuali forze di opposizione.
Ogni volta che una scelta ministeriale è bocciata dal voto dei cittadini, in effetti, quella sentenza politica ha un peso rilevante e la costante possibilità di subire una simile censura induce i governanti elvetici a muoversi solitamente con prudenza e nel rispetto dei diritti dei cittadini.
La consultazione
A questo riguardo, va rilevato come il prossimo 21 giugno in Svizzera si voterà per abrogare o confermare la legge federale dello scorso 25 settembre, che a causa della pandemia ha attribuito al Consiglio federale (il governo) una serie di prerogative che gli permettono d’intervenire in ogni ambito, sospendendo anche diritti fondamentali.
Norme come queste sono state introdotte quasi ovunque, basti pensare ai Dpcm italiani, ma soltanto nella confederazione si avrà questo passaggio: permettendo ai cittadini, se lo vorranno, di annullare le leggi speciali e tornare alla normalità. In altre parole, in Svizzera il modello consociativo permette di unire i vantaggi di un governo che contempera esigenze diverse (perché la destra deve tenere in considerazione le tesi della sinistra, e viceversa) ai vantaggi derivanti dalla presenza di poteri di bilanciamento: affidati ai cantoni, ai comuni e al popolo stesso.
In questo senso, da cittadini della Repubblica italiana dovrebbero preoccuparci alcune cose. In particolare, da noi la democrazia diretta è sostanzialmente assente, poiché la costituzione prevede un uso limitato dei referendum abrogativi (impossibili, ad esempio, in materia fiscale) e poiché perfino molte decisioni popolari sono state ignorate da governo e parlamento: dal referendum per la privatizzazione della Rai a quello per abolire i finanziamenti ai partiti.
Oltre a ciò, l’assetto giacobino della Repubblica fa sì che le regioni non rappresentino un vero contrappeso rispetto allo strapotere del governo, anche perché i vari presidenti regionali sono sostanzialmente emanazione di partiti nazionali. Avremmo allora bisogno di una riscoperta degli istituti di democrazia diretta e anche di presidenti di regione con un’altra caratura, perché quelli attuali troppo volte sembrano – ci si conceda un’ironia che rievoca immagini di duemila anni fa – semplici governatori delle lontane province di Roma.
Da La Provincia, 16 maggio 2021