Gli affitti brevi sono un problema o un’opportunità? Da mesi nel nostro paese si discute di come impedire, o almeno ostacolare, gli affitti brevi. Nello stesso periodo, si è molto parlato del caro vacanza e degli impatti dell’inflazione sulle possibilità ricreative degli italiani. E’ curioso che si continui a mettere nel mirino una pratica che – con tutta evidenza – consente di dare una parziale risposta alla scarsità di spazi che affligge molte nostre città e luoghi di villeggiatura.
Nei giorni scorsi si è arrivati a uno scontro fra i sindaci di alcune città e la ministra del Turismo. Da un lato, per citarne uno a nome di tutti, il primo cittadino di Milano, Beppe Sala, che accusa il governo di non aver fatto niente. Dall’altro, Daniela Santanché rivendica che “mi sono presa il coraggio di normare qualcosa che prima non era mai stato normato”. Non è ben chiaro come questo si coniughi con l’impegno programmatico di Giorgia Meloni a “non disturbare chi ha voglia di fare”: forse dare in locazione temporanea un immobile (attività che richiede tutte le mansioni tipiche dell’ospitalità) non è un “fare”?
Ancora meno è chiaro quale sia il fine ultimo: ridurre gli accessi nelle città per preservarne le bellezze artistiche o la vivibilità? Indurre una riduzione del costo degli affitti? Prevenire fenomeni di abusivismo? Ciascuno di questi obiettivi è, almeno in parte, condivisibile, ma può (e dovrebbe) essere raggiunto con strumenti adeguati e diretti. Se il problema è evitare che le nostre città siano “prese d’assalto” (come si usa dire) allora si può ragionare su meccanismi, in parte già esistenti, come l’introduzione di imposte di soggiorno o ticket per entrare nelle zone più pregiate (con l’esclusione dei residenti e di chi vi lavora). Se, invece, il tema è il caro-affitti, allora bisogna consentire di ampliare gli spazi abitabili, abbandonando l’idea che lo skyline non possa essere alterato e consentendo lo sviluppo in altezza degli edifici. Se, infine, si intende contrastare l’abusivismo e l’evasione fiscale, allora bisognerebbe spalancare le braccia alle piattaforme, che consentono di tracciare tutte le transazioni e già oggi dispongono di protocolli di scambio di informazioni con l’Agenzia delle entrate o gli uffici tributari dei comuni. Per ciascuno scopo (più o meno condivisibile) è possibile immaginare uno strumento adeguato. Una crociata che ambisce a risolvere tutti questi problemi in un colpo solo, però, è sospetta.
Infatti dietro alla guerra agli affitti brevi non c’è nulla di tutto ciò. C’è, piuttosto, un mix tra la pretesa di imporre agli altri la condotta che si ritiene “giusta”, la tutela di alcuni interessi (per esempio quelli degli albergatori) contro altri (i proprietari di casa), e forse anche un po’ di snobistica antipatia per i “poveri” che, come i ricchi, reclamano il diritto di visitare i luoghi dell’arte ma, a differenza dei ricchi, non mangiano nei ristoranti stellati né dormono negli hotel più lussuosi né fanno shopping nelle vie del centro. C’è l’antica tendenza italiana di considerare i diritti di proprietà dei diritti di seconda classe. L’altra incontrovertibile realtà è che, se il fenomeno degli affitti brevi è diventato così importante, è perché dietro c’è la disponibilità di asset sotto-utilizzati (gli appartamenti), c’è una domanda di tali asset, e c’è una difficoltà a utilizzarli in altri modi perché la normativa sugli affitti rende estremamente rischioso per un proprietario fare un contratto di lungo termine con sconosciuti.
Se il governo e i sindaci vogliono migliorare la situazione, dovrebbero ripensare le norme sugli sfratti e dare più licenze edilizie. Pensare di potersela cavare semplicemente regolamentando, vietando e impicciandosi delle vite altrui è la miglior prova dell’attrazione bipartisan che il declino esercita sul nostro paese.
12 settembre 2023