Prendiamo parole estreme, quelle di Dj Fabo prima di scegliere la libertà in Svizzera: «Viviamo schiavi di uno Stato, lavoriamo schiavi di uno Stato, se vogliamo morire siamo schiavi di uno Stato». Tralasciamo le ragioni di chi pensa sia giusto o sbagliato, se è egoista chi sceglie di andarsene o chi ci costringe a restare. Nella storia di Fabiano c’è un fatto incontrovertibile, che è parte poco consapevole delle nostre vite: lo Stato ci accompagna letteralmente dalla culla alla tomba. Non dobbiamo e non possiamo firmare nulla, nessuno ci chiede il permesso di farlo.
È quello che Herbert Spencer definiva il «gioco di prestigio» degli Stati sovrani: il popolo nomina i suoi rappresentanti, crea un governo, il governo crea dei diritti e dopo averli creati ci conferisce dei diritti. Ma che ne è del nostro diritto di pre-esistere? L’uomo contro lo Stato è del 1884, ben prima di vedere i lati tragici e le conquiste del pensiero novecentesco. Spencer è uno dei padri dimenticati del liberalismo, schiacciato in un tempo che aveva già metabolizzato Adam Smith e stava per affrontare lo scontro tra i fautori delle sorti magnifiche e i noiosi difensori della libera iniziativa privata. Eppure nel classico riedito da Liberilibri con il saggio introduttivo di Alberto Mingardi c’è qualcosa di profondamente moderno.
Spencer vede molto lontano: i diritti di cittadinanza che inghiottono quelli individuali, il diritto divino dei parlamenti che si sostituisce a quello dei sovrani, la tendenza pervasiva dello Stato a rispondere a qualunque bisogno. Sembra di leggere cose di ieri: «Quanto più aumenta il numero di enti e provvedimenti pubblici, tanto più si rafforza nei cittadini l’idea che tutto debba essere fatto per loro, e nulla da loro. Ogni nuova generazione è meno a suo agio con l’idea che i fini che si desiderano perseguire possano essere raggiunti con azioni individuali o accordi tra privati, e trova sempre più congeniale l’idea che a perseguirli debba essere lo Stato. Finché col tempo arriveremo a credere che solo lo Stato possa essere in grado di darci ciò che desideriamo». La chiamava la schiavitù prossima ventura.
Da La Stampa, 12 marzo 2017