28 Ottobre 2024
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Che sia Donald Trump o Kamala Harris, il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà di nuovo un presidente protezionista. Nel dibattito fra i due, del resto, Trump ha rimbrottato Harris di avere adottato (sottinteso: in ritardo) la sua stessa filosofia. L’uno e l’altra promettono una riscossa del ceto medio attraverso nuovi vincoli alla concorrenza straniera. Che la giustificazione sia più anti-cinese (ci hanno rubato la manifattura) o anti-russa (non dobbiamo intrattenere relazioni di scambio con le non-democrazie), cambia poco. E infatti la presidenza Biden, da cui ci si aspettava una correzione di rotta rispetto al predecessore, è stata, sulla scambio internazionale, in piena continuità.
Nel secondo dopoguerra, gli Stati Uniti sono stati i principali costruttori delle grandi organizzazioni multilaterali. Queste ultime hanno consentito di ridurre le barriere daziarie e di altro tipo allo scambio e gettato le basi della globalizzazione. Gli Usa avevano appreso la lezione della grande depressione, aggravata dallo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, che aveva inasprito i dazi d’importazione su oltre 20 mila tipi di beni. Le importazioni si ridussero di circa il 60% negli anni più duri della crisi economica, con un ovvio peggioramento della vita delle persone. Sempre a quegli anni risale una delle pietre angolari del protezionismo americano, il Buy American Act, del 1933. L’obiettivo era vincolare gli acquisti della pubblica amministrazione: la quale doveva approvvigionarsi di materie prime rigorosamente estratte sul territorio Usa e di manufatti i cui costi di produzione fossero per il 50% ascrivibili a imprese e lavoratori statunitensi. In origine, la logica del provvedimento era emergenziale e legata alle pesantissima disoccupazione seguita al crollo del ’29: bisognava tutelare posti di lavoro americani, in un momento delicatissimo.
Non solo in Italia, tutto quello che è «emergenziale» tende però a diventare permanente. Un nuovo paper del Nber, «The Increasing Cost of Buying American» (scritto da Matilde Bombardini e Chiara Motta dell’Università di Berkeley, assieme ad Andres Gonzalez-Lira dell’Università Cattolica del Cile e Bingjing Li dell’Università di Hong Kong) quantifica i costi della continua dilatazione del Buy American.
I recenti emendamenti introdotti sia dall’amministrazione Trump che da quella di Biden contemplano infatti un aumento del requisito di contenuto nazionale per i fattori produttivi dei componenti dei beni manufatti acquistati dalla pubblica amministrazione, dal 50% al 75% nel 2029.
Come giustamente sottolineano gli autori, la storia del Buy American è fatta di contestazioni ed eccezioni. Già ai tempi di Eisenhower vennero convocate commissioni governative per indagarne costi e benefici. Alcuni sottolinearono che l’effetto netto era quello di imporre un «super-dazio» ai beni acquistati dal governo, inflazionandone i prezzi. Altri aggiunsero che la chiusura a beni d’importazione era in tensione con le stesse priorità della politica estera americana.
Il governo tende a consumare beni rispetto ai quali la parte dell’offerta che viene dalle importazioni è relativamente modesta, anche al netto di iniziative come queste. La spesa pubblica destinata all’acquisto di beni e servizi è però aumentata decisamente negli anni Duemila in Usa, e di questa un terzo riguarda beni manufatti. Su questi Trump ha alzato l’asticella della quota di costi ascrivibili ad americani al 55% e Biden al 65% nel 2024 e al 75% nel 2029. Un’arrampicata protezionista. La ricerca sottolinea come questo rendere ancora più stringenti le condizioni d’acquisto avrà per effetto costi maggiori: «La crescente severità del Buy American Act genererà costi proporzionalmente crescenti. Mentre la versione attuale del dispositivo ha creato 50-100 mila posti di lavoro (ciascuno costato tra 111 mila 500 dollari e 137 mila 700 dollari), la sua forma futura creerà ulteriori posti di lavoro a un costo pro-capite stimato superiore a 154 mila – 237 mila dollari».
«Spostando» coercitivamente verso acquisti nazionali una serie di risorse, in parte si centra l’obiettivo: quello, cioè, di creare posti di lavoro. La questione, come sempre, è: a che prezzo? Scegliere di non acquistare un prodotto o un servizio straniero, anche se più conveniente, per la società è un costo: si impiegano in quel modo risorse che sarebbero altrimenti libere di trovare altri impieghi. Questo è vero anche se l’acquirente è lo Stato, che sceglie in qualche modo di penalizzarsi, convinto di creare così un beneficio a quel pezzo di mondo dal quale dipende.
Le imprese nazionali sono gestite da cittadini americani, che sono anche contribuenti ed elettori, esattamente come cittadini, contribuenti ed elettori sono pure i loro lavoratori. Tutto bene, quindi?
No, perché gli interessi dei contribuenti non coincidono con quelli dei beneficiari della spesa pubblica, anche se gli uni e gli altri votano nello stesso Paese. I protezionisti propongono una visione antagonista delle relazioni internazionali, per cui se «la Cina» (cioè i lavoratori e i consumatori cinesi) guadagna per forza, l’America (cioè i lavoratori e i consumatori americani) perde. Ma le cose non stanno proprio così, anche perché gli interessi all’interno di uno stesso Paese non sono affatto omogenei.
Maggiori restrizioni allo scambio internazionale, anche per la pubblica amministrazione, significano sostanzialmente obbligarsi a spendere peggio. In questo caso, il denaro dei contribuenti. Tutto bene, purché la bandiera garrisca nel vento?