I costi sociali dei disturbi alimentari

Siamo pronti a riconoscere all'attore pubblico il diritto di decidere ciò che possiamo e ciò che non possiamo mangiare?

9 Aprile 2015

Mondo Salute

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Il successo dei “talent” di cucina, dove si premia una dimensione con la quale il telespettatore non potrà mai entrare in contatto diretto, quella della bontà al palato, rivela quanto grande sia la domanda di informazione e curiosità alimentari. Forse ci siamo semplicemente accorti che il cibo è cultura, al pari di un romanzo o di uno spettacolo teatrale.

Anche la dimensione del “sano”, oltre a quella del “buono”, è oggetto di crescente interesse. Si tratta di un’ottima notizia: i disturbi alimentari, di diverso tipo, hanno un impatto sull’economia complessiva dei sistemi sanitari. L’educazione e la buona informazione possono avere un loro ruolo. Due considerazioni, però, s’impongono. In prima battuta, l’educazione non è “coercizione”.
Avrebbe senso penalizzare fiscalmente alcuni cibi, o alcune bevande, in ragione del contenuto di zuccheri o grassi?

Ci ha provato la Danimarca, tassando con un’aliquota di circa due curo al chilo gli alimenti contenenti almeno il 2,3% di grassi saturi. Il bel risultato è stato quello di alimentare (è il caso di dirlo!) un fiorente commercio transfrontaliero, con le ovvie ripercussioni su commercio al dettaglio ed erario. L’esperienza si è rivelata a tal punto deludente, che dopo un anno appena il governo ha dovuto fare macchina indietro. In altri Paesi si è ragionato di imposte sulle bibite gassate (per esempio in Francia). È sempre difficile, in questi casi, comprendere fino a che punto arriva l’aspirazione di migliorare la dieta del popolo, e dove comincia invece la disperata fame di tributi di Stati in crisi fiscale permanente.

Ma anche immaginando che dietro questi provvedimenti non stiano che le migliori intenzioni, è impossibile non porsi un problema di libertà. La dieta di ciascuno di noi è quanto di più privato. Siamo pronti a riconoscere all’attore pubblico il diritto di decidere ciò che possiamo e ciò che non possiamo mangiare? I più cinici risponderanno che, dopotutto, lo Stato già lo fa. Eppure è difficile mettere sullo stesso piano norme che dovrebbero impedire la circolazione dí alimenti fallati e nocivi, con una regolamentazione improntata a criteri dietologici.

È difficile anche sostenere che gli aggravi per il servizio sanitario nazionale la giustifichino (anche il diverso corredo genetico comporta costi diversi da persona a persona: pensiamo a una discriminazione fiscale su base genetica?). Si tratta di un’aritmetica sociale molto complicata, nella quale di un eccesso di determinismo può fare le spese proprio la legittima aspirazione delle persone di mangiare ciò che aggrada loro. Del resto, sappiamo bene che, nelle società occidentali, i disturbi alimentari sono più il sintomo, che la fonte, del disagio.

L’Expo dovrebbe allora essere un’occasione per dare più informazione, andando incontro a una domanda diffusa e legittima. Non per immaginare altre soluzioni “collettive” a problemi eminentemente individuali.
In seconda battuta, è importante non confondere il “sano” col “locale”, col “tradizionale”.
Ricordiamoci che nell’Italia del 1922 era sottonutrito un italiano su cinque. Non si stava meglio quando si stava peggio, quando la carne era per pochissimi e il pesce era rigorosamente “a chilometro zero”, nel senso che lontano dal mare non ci arrivava proprio. È stato il progresso economico a migliorare tavola e salute.

Da Mondo Salute, 9 aprile 2015
Twitter: @amingardi

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