I diritti umani funzionano se rispecchiano la realtà

Nel suo libro Ignatieff va al di là dell'astrattezza della morale globale: i valori nascono in situazioni concrete

13 Novembre 2017

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Dall’America di Trump all’Austria di Kurz, oggi in politica vince chi sa giocare con la retorica del conflitto. Il mondo globalizzato ci pare pericolosissimo. Ci sentiamo insicuri, le migrazioni minacciano la nostra identità, il terrorismo ci sorprende a due passi da casa.
Michael Ignatieff, Presidente della Central European University, quindici anni fa scriveva Una ragionevole apologia dei diritti umani (Feltrinelli).
Lo storico canadese pensava fosse saggio definire un insieme di «diritti» accettabili da tutte le culture. Se è difficile convenire su cosa sia il bene, è possibile invece «essere d’accordo su ciò che è insopportabilmente e indiscutibilmente sbagliato».

Esportare la democrazia

Non era poi così facile. In pochi oggi si arrischiano a credere che si possa «globalizzare» una certa idea di giustizia. «Gli studiosi attribuiscono il fallimento di un’etica globalizzata agli egoismi nazionali. Tuttavia il problema è più profondo. Nella maggior parte delle democrazie i cittadini ritengono che i propri interessi, democraticamente individuati, debbano prevalere sugli interessi dei popoli di altri paesi». «Esportare» i diritti umani ed «esportare» la democrazia sembravano essere la stessa cosa. Invece le libere elezioni rinvigoriscono la logica del «noi contro voi». La regola della maggioranza sorregge i nazionalismi, non li ostacola.

Perciò in The Ordinary Virtues. Moral Order in a Divided World (Harvard University Press, 2017, pp. 272, C 25) Ignatieff ha voluto cambiare punto d’osservazione. Per cercare di capire «come agiscono effettivamente le persone comuni provenienti da culture diverse quando si confrontano su questioni specifiche relative a principi morali» ha visitato Jackson Heights a New York e il Myanmar, le favelas di Rio de Janeiro e Fukushima, Zama Zama (una baraccopoli alle porte di Pretoria), Sarajevo, Los Angeles.

Nessuna di queste realtà è modellata su un progetto di comunità plurale e cosmopolita, nelle quali gruppi diversi promuovono il «minimo comune denominatore» dei diritti umani. In Myanmar Aung San Sui Kyi rifiuta di condannare la persecuzione della minoranza Rohingya (poverissimi e musulmani) come «pulizia etnica». In Sud Africa l’African National Congress non è stata capace di costruire un’economia abbastanza solida da offrire opportunità a milioni di africani. A quasi trent’anni dalla fine dell’apartheid, resta più facile incolpare della miseria il «privilegio dei bianchi» (meno de110% della popolazione) che ragionare sui problemi della transizione.

Tolleranza pratica
Esistono però luoghi dove «la tolleranza non è un valore universale, ma semplicemente una pratica sociale quotidiana». In un grande conglomerato come Los Angeles, comunità diverse convivono grazie a un «sistema operativo etico». «Le virtù della fiducia e della tolleranza inter-etnica dipendono dal buon funzionamento delle istituzioni: che la polizia e i tribunali producano un’eguaglianza, sia pure grossolana, davanti alla legge, che i politici mantengano una distribuzione ragionevolmente equa di favoritismi verso tutti i gruppi, che le opportunità di carriera rimangano aperte». Perciò, i bassi salari degli immigrati non rappresentano un’ingiustizia: appaiono come il primo gradino di una scala che ognuno può salire. Proprio i neo-statunitensi sono protagonisti di una «esperienza di individuazione: le donne diventano quelle che portano i soldi a casa, i figli lasciano l’autorità della famiglia per la disciplina della scuola, i patriarchi perdono parte della loro autorità quando vanno a lavorare in fabbrica».

The Ordinary Virtue è un viaggio affascinante non nel migliore dei mondi possibili, ma in quello che c’è. Nei Balcani, un dialogo con una traduttrice bosniaca suggerisce all’autore che «finché la gente non generalizza, finché termini come nazione o fede, parole come noi e loro, non gli entrano in testa, finché si parla solo di te e di me, le persone possono vivere insieme, fianco a fianco, differenza accanto a differenza». Ma che le differenze di nazione e di fede vengano magicamente deposte, come nell’ Imagine di John Lennon, è assai improbabile. Persino negli Stati Uniti, «quando l’immigrazione è cresciuta, l’effetto è stato quello di rafforzare l’endogamia razziale».

Si può invece sperare in qualche cosa di diverso. In quella «pratica», più che teoria, della tolleranza che nasce semplicemente dall’avere un pochino bisogno gli uni degli altri, anche se apparteniamo a diverse etnie e ci capiamo più che altro a gesti. È altamente probabile che preferiremmo continuare a vivere con chi ci assomiglia: la curiosità per l’altro, il gusto della differenza, sono abitudini culturali di pochi e sarebbe sbagliato pretenderle dalle persone «ordinarie». Le virtù ordinarie hanno a che fare con lo stare in coda in ospedale senza sorpassarsi a vicenda, con la cortesia del buongiorno e buonasera che il negoziante riserva ai suoi clienti quale che sia il colore della loro pelle. Possiamo fare la fila assieme, anche se preghiamo dei che non abitano lo stesso olimpo.

L’autointeresse
È un rispetto che non ci viene dalla filosofia, ma dalla realtà dei commerci, dal trovarsi l’uno fianco all’altro nei bazaar, dallo sperare che le forze dell’ordine sorveglino le nostre rispettive bancarelle. La potenza dell’autointeresse per costruire la convivenza resta un po’ troppo in ombra nel libro di Ignatieff. Ma rimane vero che l’ottimismo dei piccoli passi è fatto di virtù ordinarie, e di speranze che non richiedano atti di eroismo.

Da La Stampa, 13 novembre 2017

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