I grandi appalti più vulnerabili alla corruzione

Dal punto di vista dei contribuenti, il problema non è che lo Stato acquisti certi beni o servizi. Il problema è come si determina la decisione di acquisto

7 Agosto 2017

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Come si fa a battere la corruzione? Gli italiani se lo chiedono almeno dai tempi di Tangentopoli. A un certo punto è stato spiegato loro che lo si faceva centralizzando gli acquisti della pubblica amministrazione. Adesso che l’ANAC indica alcune possibili anomalie negli appalti Consip, riconducibili a un accordo per privilegiare alcune cooperative a spese di altri partecipanti alle gare, anche quella certezza vacilla.

La percezione diffusa che la corruzione resti un problema endemico inibisce lo spirito d’iniziativa, prosciuga le speranze nel futuro, e nella politica.
Consip sembrava un passo nella direzione giusta, così come la riduzione del numero delle stazioni appaltanti. Ciò rifletteva ragionamenti diventati di senso comune.

Da alcuni anni, infatti, le cause prime della corruzione sono state a più riprese indicate nel decentramento e nell’ampio ricorso ad appaltatori privati.
Il decentramento è un indiziato piuttosto improbabile. L’Italia di Tangentopoli era ancora meno “federalista” dell’Italia di oggi: è difficile sostenere fosse meno corrotta.
Perché poi le pulizie in una scuola media in provincia di Cuneo dovrebbero essere fatte meglio, a minor prezzo, se a decidere chi deve farle è una Consip romana?

In Europa, forse le pubbliche amministrazioni reputate più trasparenti e virtuose sono quella svizzera e quella tedesca: entrambi Paesi federali.
Dire che la causa della corruzione sta nel ricorso ad appaltatori esterni al perimetro della PA è un’ovvietà: perché ci sia qualcuno che viene corrotto, deve esserci qualcuno che lo corrompe. Più cose lo Stato fa, e tanto più inevitabile è il ricorso a fornitori esterni. Il contrario sarebbe impensabile. Gli ospedali pubblici hanno bisogno di farmaci, gli uffici pubblici non possono far senza articoli di cancelleria: non se ne possono occupare società “in house”.

Dal punto di vista dei contribuenti, il problema non è che lo Stato acquisti certi beni o servizi. Il problema è come si determina la decisione di acquisto.
Se quella decisione è, per la controparte private, molto rilevante, l’incentivo a corrompere è più alto. Questo non vuol dire che ogni imprenditore sia un corruttore in pectore e ogni funzionario un concussore che aspetta solo il momento propizio. Che lavorino nel pubblico o nel privato, le persone hanno una propria etica e un proprio orgoglio professionale. Ma le istituzioni non possono fondarsi su caratteristiche individuali, per quanto ammirevoli come queste.

Se il perimetro dell’attività di una pubblica amministrazione è limitato, è improbabile che possa concedersi spese stravaganti. Piccole commesse non possono che generare “stecche” di dimensione modesta: difficilmente si trasformeranno in un “sistema”. Un bando da 2,7 miliardi, al contrario, suscita grandi appetiti. Inoltre, le modalità con le quali sono state fatte le aste, per lotti, sembrano fatte apposta per facilitare un accordo collusivo fra le poche società in grado di fare offerte per sevizi da offrire su tutto il territorio nazionale.

Il sistema perfetto, quello che davvero garantisce probità e competenza, non esiste. Più modestamente bisogna cercare di ridurre le occasioni che possono fare l’uomo ladro. Abbiamo avuto due grandi esempi di centralizzazione degli acquisti: l’amministrazione del terzo reich e il gosplan sovietico. Fra le altre cose, probabilmente i due sistemi più corrotti di cui si abbia memoria.

Da La Stampa, 7 agosto 2017

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