12 Giugno 2017
Il Giornale
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
L’ultima ricerca della Cgia offre più di un motivo di riflessione. Esaminando i dati della disoccupazione dell’ultimo anno, il centro studi di Mestre ha sottolineato come cresca in particolare la quota dei licenziamenti «provocati». A seguito della riforma Fornero del 2013, infatti, chi viene licenziato ha diritto al cosiddetto ASpI: un assegno mensile della durata massima di due anni che è in parte sostenuto dalla stessa azienda che ha lasciato a casa il dipendente. E il risultato è che oggi molti fanno il possibile per essere licenziati e intascare questo «ammortizzatore sociale».
Notizie come queste, senza dubbio, inducono a riflessioni amare, poiché in Italia sono ormai molti disposti ad accettare un’indennità senza faticare, piuttosto che dover andare ogni mattina al lavoro. Ma, oltre a ciò, tali fatti devono indurci a riflettere su vari progetti in circolazione e su una serie di riforme già realizzate.
Quanti a Roma parlano di «reddito di cittadinanza» (come fa in particolare il Movimento Cinquestelle) dovrebbero allora chiedersi quale percentuale della popolazione smetterebbe di lavorare se già oggi sono decine di migliaia a sfruttare una norma di legge (pensata a tutela di veri disoccupati) per intercettare soldi senza muovere un dito. Poiché a tutte le latitudini gli esseri umani mutano il proprio comportamento sulla base degli incentivi, non ci vuole molto a capire che un Pil pro-capite già ora molto più basso di quello di tante altre economie dell’Ocse sarebbe ancor più depresso da una misura ridistributiva che per definizione penalizzerebbe chi produce e incentiverebbe chi non realizza nulla.
Non solo è molto discutibile che sia giusto togliere ad alcuni per dare ad altri, punire chi si mette al servizio del prossimo (lavorando) e premiare chi invece non lo fa. Ma, anche prescindendo da considerazioni di equità, è facile prevedere come l’aumento delle risorse ridistribuite dalla mano pubblica farebbe diminuire ancor più il rapporto tra gli occupati e la popolazione nel suo insieme.
In questo senso, anche al di là della connotazione elettoralistica della misura, è chiaro che la decisione del governo Gentiloni di finanziare un «reddito d’inclusione» presenti quanto meno luci e ombre. L’intenzione di aiutare i più disagiati è lodevole: nelle società del passato (quando la tassazione era assai inferiore) non c’era bisogno di tali misure, dato che la società stessa considerava necessario sostenere le famiglie più in difficoltà. Come molti studi storici hanno mostrato, prima che il welfare di Stato spazzasse via quasi ogni forma di solidarietà spontanea, in tutta la società occidentale vi era una ben maggiore capacità di aiutare i più deboli. E, comunque, è meno ingiustificata una misura di questo tipo che un qualsiasi finanziamento alle imprese.
Nonostante ciò, bisogna ben sapere che quando lo Stato finanzia i gruppi più bisognosi, essi hanno un vantaggio di breve termine a cui si associa un danno di lunga durata. Come nel caso dei licenziamenti «cercati» per avere un salario senza lavorare, ogni sostegno crea dipendenza e toglie stimoli. Se il povero Veneto del dopoguerra avesse avuto i finanziamenti della Cassa del Mezzogiorno, forse non avrebbe mai conosciuto lo sviluppo che ha costruito grazie al suo lavoro e alla sua creatività. Il «reddito d’inclusione» di Gentiloni ha dunque un merito: riguarda solo alcune centinaia di migliaia di persone e non l’intera società (come nel caso del reddito di cittadinanza). Speriamo comunque che, essendo erogato solo alle famiglie più deboli, non faccia loro troppi danni.
Da Il Giornale, 11 giugno 2017