La spesa dipende soltanto dalla politica: è l’ora delle scelte davanti agli elettori
Di riduzione della spesa se ne è parlato per molti anni, finché la crisi della pandemia non l’ha fatta uscire dal lessico politico. Nemmeno l’Europa fa più la guardia come un tempo all’equilibrio di bilancio. L’effetto netto del Pnrr sul saldo di indebitamento sarà di 55,6 miliardi, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio. E le nuove procedure del Patto di stabilità sono più morbide delle precedenti. La scommessa dell’Europa e dei suoi Stati membri è che gli effetti del Pnrr superino il costo e che una maggiore flessibilità nella valutazione delle politiche nazionali di bilancio dia maggior respiro alla necessità di tenere in equilibrio le promesse di welfare, le pretese di investimento e la sostenibilità della spesa. Formule molto lontane da quelle di una decina di anni fa, sulle quali – in questo momento – possiamo solo mettere un’ipoteca di speranza.
Ma i conti sono solo in parte sensibili alle teorie e il governo si trova ora, come ogni anno, a doversi ingegnare per trovare le coperture alla legge di bilancio, con una manovra in buona parte segnata dalla riconferma di misure precedenti e dalla necessità di ridurre il deficit di circa 0,7 punti di Pil all’anno nell’ambito della nuova procedura preventiva del Patto di stabilità.
In questo contesto di malcelate ristrettezze e inquietudini, mentre dal Mef Giancarlo Giorgetti sembra intenzionato a chiedere ai ministeri uno sforzo di revisione della spesa superiore alle attese, proprio per venire incontro alle necessità della manovra, l’ancora ministro Fitto, guardando già a Bruxelles, ha parlato al Meeting di Rimini di «spesa buona». Una variante a metà tra la revisione della spesa e il debito buono, che merita di essere presa dal verso giusto, per non pensare – come pure è lecito farlo – che si tratti solo di una gabola ai contribuenti per qualificare come buone le uscite che un ministro di turno dice essere tali, un po’ come quando il Marchese del Grillo ricordava ai poveracci che lui era lui e loro non erano nessuno.
La revisione della spesa è la versione italiana della spending review di origine inglese, poi entrata nel lessico e nelle metodologie internazionali di valutazione delle politiche pubbliche. Non si dovrebbe trattare però solo di un insieme di valutazioni e tecniche di efficientamento della spesa, una di quelle cose che si appuntano in fogli excel precompilati con l’aiuto dell’Ocse e simili. Proprio sulla base di questo fraintendimento, invece, si è fatta passare l’idea che la spesa sia opinabile non tanto nel merito, quanto nel modo in cui viene fatta.
Insistere sulle tecniche di efficientamento e sui tagli utili allo scopo vuol dire ritenere che la qualità della spesa dipenda dalla qualità delle procedure di monitoraggio, di controllo, di rendicontazione, di valutazione preventiva e successiva. Ciò è però l’anticamera della burocrazia, che ha per effetti paradossali quello di aumentare l’entropia burocratica e persino la stessa spesa pubblica. Dal 2009, con diversi interventi legislativi il processo di spending review è diventato sempre più articolato. La legge di bilancio per il 2023 ha istituito un fondo di 75 milioni per il triennio dedicato al potenziamento delle competenze dei ministeri in materia di valutazione delle politiche pubbliche e revisione della spesa. Suoi obiettivi di miglioramento sono entrati anche nel Pnrr.
Evidentemente qualcosa non funziona, se non vediamo risultati pari all’impegno e alle risorse che vi si dedicano. L’espressione “spesa buona” ha invece il vantaggio di ricordare che, molto prima delle tecnicalità, sempre di scelte politiche stiamo parlando, sulle quali chi governa deve metterci la faccia. E magari di scelte di spesa che non necessariamente impongono un ricorso al debito, buono o cattivo che sia, ma una riduzione dei costi.
D’altro canto, la discrezionalità politica – per fortuna – non è del tutto libera nella scelta di come distribuire le risorse. Non potrebbe tagliare le spese per i servizi essenziali, né togliere indiscriminatamente i trasferimenti verso gli enti locali, senza ledere i diritti e compromettere l’erogazione dei servizi alle persone. Certo, diritti e servizi non basta prometterli sulla carta e il welfare è bello nelle intenzioni molto più che nei risultati, ma è chiaro che certa spesa sia indisponibile anche nel più austero dei mondi possibili.
La prima difficoltà di fare una buona spending review è proprio questa: scegliere davanti agli elettori, in un contesto di tutele costituzionali, cosa voglia dire spreco, sapendo che non è tale solo la spesa inutile o erogata in maniera inefficiente, ma anche quella che ha effetti che, con metro di giudizio politico, si ritiene inferiori rispetto ai sacrifici, indesiderati o persino sbagliati. Si pensi alla spesa per le pensioni, che vale più di un terzo di tutta la spesa pubblica e che tocca il cuore delle promesse elettorali della Lega da un lato, ma anche dei tentativi di razionalizzazione e di aggiornamento alle caratteristiche demografiche del paese dall’altro. Si pensi allo stesso Pnrr: un enorme piano di spesa pubblica che in parte dovremo restituire e che riterremo spesa buona o no solo quando capiremo se gli effetti positivi sulla struttura delle nostre economie saranno superiori ai costi.
La seconda difficoltà di una spesa qualificata come buona in questi termini, allora, diventa quello di riuscire a qualificarla come tale prima, nel decidere in maniera chiara e democratica dove e quante scarse risorse allocare, e non dopo averla fatta.
A voler prendere sul serio l’espressione della spesa buona coniata dal ministro Fitto, si può quindi pensare che si tratti di un auto-richiamo ai doveri di governo. Nelle prossime settimane, esso dovrà dare forma sia alla manovra che al Piano strutturale che vincolerà le politiche fiscali e di bilancio per i prossimi anni. In questo momento, dire davanti agli elettori cosa si ritiene spesa buona e cosa spesa cattiva sarebbe un importante segno di responsabilità, con tutte le conseguenze che in democrazia ne dovrebbero discendere.
È, questa, un’interpretazione con ogni probabilità eccessivamente ottimistica. Ma di fronte allo stretto passaggio appena detto della manovra e della presentazione di un Piano strutturale che dovrà – come ha detto il presidente del Cnel Brunetta fare da staffetta al Pnrr, parlare di spesa buona è un primo, primissimo passo sul percorso di bilancio. Dopo il quale occorre che il governo dica e decida con chiarezza di intenti e con senso prospettico quale è la spesa a suo giudizio cattiva da tagliare e come finanziare quella che ritiene buona.