I risparmi nell'incognita delle urne

Non sarà la fine del mondo, ma potrebbe essere l'occasione, per il resto del mondo, di una revisione sulle sue aspettative circa il sistema-Italia

29 Novembre 2016

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Gli italiani sono un popolo di santi, poeti e risparmiatori. Per questo la percezione diffusa di possibili turbolenze finanziarie potrebbe influenzare il voto di domenica. Lo spread fra titoli di stato italiani e tedeschi è ormai su una traiettoria di crescita, e il Financial Times arriva a ipotizzare nientemeno che il fallimento di otto istituti di credito. Già Vilfredo Pareto identificava il tipo umano del semplice possessore di risparmio come gente quieta, “abbarbicata al paese come l’ostrica alla conchiglia”, guardinga verso cambiamenti che potrebbero pregiudicarne “il buon andamento della vita”.

Tradizionalmente, le obbligazioni bancarie pesano molto di più, sul totale delle attività finanziarie delle famiglie, di quanto non accada in altri Paesi. La paura di ripercussioni sul mondo del credito è quindi una buona alleata de fronte del sì.

A ciò si aggiunge un timore di ordine più generale. Dovremmo avere imparato che gli investitori, prima o poi, si pongono la fatidica domanda: lo Stato che sto finanziando sarà in grado di onorare i suoi debiti? Nel 2011 i nostri creditori hanno preteso un tasso d’interesse velocemente crescente (l’estate dello spread) per continuare a finanziare la nostra spesa pubblica. Un primo ministro perse il posto, il suo successore si guadagnò l’impopolarità a vita per le misure che si trovo’ a adottare: doveva essere una lezione indimenticabile per almeno una generazione di politici.

Apparve finalmente chiaro che fare debito oggi vuol dire pagare più tasse domani. Il che a sua volta significa che chiunque immagini di fare ora un investimento ha il fondato timore che, quando quell’investimento dovrebbe cominciare a produrre rendimenti, ci pagherà sopra imposte più elevate. Non esattamente un incentivo a intraprendere nuove attività.

Ma nonostante interi palinsesti di dibattito sulle “riforme strutturali”, la lezione è stata velocemente dimenticata. L’azione della Banca centrale europea ha ridotto la pressione a farle, quelle riforme, grazie a un consistente risparmio sulla spesa per interessi. Il paracadute di Draghi ha consentito a Matteo Renzi di muoversi con spregiudicatezza sul terreno della finanza pubblica. E tuttavia, lo stesso Renzi – un leader giovane, risoluto, disinvolto e sicuro nei rapporti internazionali – ha contribuito a creare una “bolla” attorno al sistema Italia. Abbiamo goduto, presso gli analisti, di stampa migliore di quella che avremmo meritato.

Adesso i nodi stanno venendo al pettine. La fragilità delle banche italiane è sotto i riflettori. Se davvero la stagione dei tassi permanentemente bassi o negativi si avvia a conclusione, questo avrà conseguenze per la nostra capacità di indebitarci. Una vittoria del no produrrebbe inevitabilmente, nel breve, l’uscita di scena del governo e un periodo di turbolenza politica. Non sarà la fine del mondo, ma potrebbe essere l’occasione, per il resto del mondo, di una revisione sulle sue aspettative circa il sistema-Italia. Il contribuente italiano, dopo le esperienze precedenti, guarda l’arrivo di un governo “tecnico” con una certa apprensione.

È possibile questo il calcolo che si faranno i quieti redditieri? Non è detto. Forse ricorderanno la battaglia del premier contro il “risparmio inerte”, con tanto di giro di vite fiscale sulle “rendite finanziarie”. O magari sono italiani come tutti gli altri: da vent’anni praticanti appassionati dello sport dell’alternanza, che a ogni elezione, o suo surrogato, votano contro il governo in carica. Pur pensando che quello dopo farà uguale, o forse peggio.

Da La Stampa, 29 novembre 2016

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