Anche se il numero dei senatori a vita è molto esiguo rispetto a quello a tre cifre di cui si compone il Senato, essi rappresentano una particolarità del sistema costituzionale italiano non marginale. Lo stesso numero è solo apparentemente poco importante. Non a caso, per anni si è discusso ai massimi livelli se fosse il numero massimo totale o il numero massimo di nominabili da ciascun Presidente della Repubblica. Fu Scalfaro a voler mettere fine alla seconda linea interpretativa avviata da Pertini – che decise di nominare Bobbio e Bo nonostante i 5 senatori già in aula – e proseguita da Cossiga. La storia parlamentare ha dimostrato che, nonostante siano una ridottissima minoranza e nonostante la correttezza istituzionale a distanza dalle logiche di partito, i senatori a vita possono alterare il rapporto tra maggioranza e opposizione, con effetti sull’approvazione delle leggi ma, soprattutto, sugli atti che determinano la vitalità di quel rapporto, a partire dai voti sulla fiducia. Tanto più in un senato quasi dimezzato dopo il taglio dei parlamentari.
Per un solo voto, la maggioranza del primo Governo Berlusconi riuscì a far nominare presidente del Senato Scognamiglio anziché Spadolini. Segno che non tutti – o forse nessuno – dei senatori a vita votò per il Presidente indicato dalla maggioranza. Per la fiducia al suo primo Governo, Berlusconi, senza maggioranza al Senato, dovette ottenere che uscissero dall’aula 4 esponenti del Ppi, alleato dell’Ulivo, sapendo di non poter contare su 5 degli 8 senatori a vita. Nel 2006, il governo Prodi fu salvato due volte dai senatori a vita. Per la fiducia iniziale, il governo contava su 157 voti in Senato. Troppo pochi. Tra i 165 voti che ottenne, 7 erano di senatori a vita, di cui 4 di nomina presidenziale (Andreotti, Colombo, Montalcini, Pininfarina). In dicembre furono poi Montalcini e Colombo con Cossiga, Ciampi e Scalfaro a votare la fiducia posta da Prodi alla legge finanziaria, salvando il governo dalle dimissioni. Nonostante l’esiguità dei numeri, pur molto al di sotto di alcune proposte in Assemblea costituente dove si parlava persino di 30 nominabili dal Presidente, i senatori di nomina presidenziale si sono rivelati ago della bilancia in più occasioni. Anche per questo, la loro figura è stata dall’inizio controversa. Il tentativo della riforma Casellati segue un identico precedente della Commissione D’Alema.
La riforma del 2005 di Berlusconi ne prevedeva la riduzione a 3. La loro rilevanza, però, non è solo quantitativa. Anzi, lo è più dal punto di vista qualitativo di ciò che essi rappresentano: una élite in posizione dialettica rispetto alla legittimazione popolare dell’assemblea legislativa. La retorica della democrazia immediata, di cui FdI (insieme alla Lega) è preda non meno di quanto lo sia stato il Movimento 5 stelle, impone che la democrazia sia un tutt’uno con la diretta volontà popolare. Della riforma costituzionale in corso, il punto non negoziabile per Meloni è proprio questo. I senatori di nomina presidenziale sono invece una variabile platonica nella costante della democrazia: la loro nomina è di esclusiva volontà del Presidente della Repubblica, anch’egli estraneo al circuito elettorale, ed è motivata dai loro «altissimi meriti». È un contemperamento del sistema elettivo inaccettabile per chi si è fatto portatore di una visione plebiscitaria della democrazia.
Fu proprio uno spirito contromaggioritario, cioè di raffreddamento e alternativa della legittimazione elettorale, a spingere la Costituente ad «assicurare al Senato il concorso di personalità eminenti» (cosi Ambrosini) che era bene rimanessero estranee alle competizioni politiche ma che portassero la loro esperienza, il loro valore, la loro capacità a «lume e decoro dell’Assemblea» (così Porzio). Per questo la loro soppressione, approvata in prima lettura al Senato nella riforma costituzionale Casellati-Meloni, ha un valore simbolico superiore al valore pratico di eliminare un elemento di variabilità negli equilibri politici dell’Aula. Anni fa Meloni, in un’aspra risposta a Napolitano che si dichiarava contrario alle elezioni anticipate, lo accusò di non conoscere l’art. 1 della Costituzione laddove, a suo avviso, dice che «il potere appartiene al popolo». In realtà, la Costituzione dice che la sovranità, non il potere, appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. In quel lapsus e in quella interpretazione dimezzata e dimentica della parte sulle forme e i limiti si gioca l’ambiguità di una visione della democrazia come potere al popolo più che come equilibrio di poteri, rispetto alla quale i senatori a vita sono un pezzo del racconto.