11 Novembre 2024
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Molti saranno rimasti senza parole ascoltando l’amministratore delegato di European House Ambrosetti, Valerio De Molli, che intervistato al Tg1 ha sostenuto che «le guerre sono vettori di crescita, perché producono manifattura, produzioni, forniture varie». E sembrato che si volesse quasi tracciare una connessione tra i conflitti e la prosperità, e che quindi si dovesse guardare in ter mini positivi a quegli scontri sanguinosi che hanno luogo nel mondo.
La tesi non è nuova, ma s’è venuta a imporre soprattutto nel secolo scorso. Tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, al contrario, era radicata la convinzione che lo sviluppo economico esigesse la pace. All’ingresso del porto di Amsterdam, che al tempo delle Province Unite era la città più avanzata e civile di tutta Europa, compariva una grande scritta in latino: “Commercium et Pax”. Quel motto interpretava convinzioni diffuse: che lo sviluppo economico esigesse un mercato libero, che questo potesse svilupparsi entro un quadro governato dal diritto e che, infine, la pace fosse la condizione stessa del diritto. Alla base c’erano una serie di considerazioni anche elementari, a partire dall’idea che il mercato esige rispetto di proprietà e contratto, mentre in guerra s’assiste all’inabissarsi dei principi giuridici fondamentali.
Montesquieu e Constant
In autori come Montesquieu e Constant la pace è la condizione dei commerci e questi ultimi favoriscono la convivenza, mentre la guerra è distruzione e violenza. Un grande economista francese di metà Ottocento, Frédéric Bastiat, disse che se una frontiera non è attraversata dalle merci, prima o poi vedrà il passaggio da gli eserciti. Sulla stessa lunghezza d’onda si trovava Richard Cobden, oggi ricordato soprattutto perle sue battaglie libero-scambiste, ma che in realtà dedicò la maggior parte delle sue energie intellettuali a contrastare l’imperialismo britannico. Al tempo di Bastiate Cobden, insomma l’economia era associata ai pacifici scambi di mercato, ma poi si sono imposte visioni del tutto alternative.
Terremoti “benefici”
Con il declino della visione liberale e l’avvento di organizzazioni statali sempre più forti, il registro è mutato. La scuola storica tedesca, da un lato, e l’econometria, dall’altro, hanno posto le basi per quella che sarà la teoria economica di maggior successo del secolo scorso: il keynesismo. E anche se John Maynard Keynes scrisse pagine interessanti sui trattati che dopo il 1918 hanno in larga misura posto le basi per il successivo conflitto, il cuore della sua riflessione ha finito per offrire legittimazione alla guerra.
In Keynes non c’è alcuna enfasi sul lato dell’offerta (sull’imprenditore e anche su chi, con il suo risparmio, gli mette a disposizione i capitali), ma su quello della domanda. Non a caso, un keynesiano come Paul Krugman sostenne che perfino un terre moto può essere economicamente “benefico”, dato che la ricostruzione esige la mobilitazione di grandi risorse. Mentre famiglie e imprese tendono a essere previ denti e accumulare, per l’economista inglese sarebbe il consumo a far crescere la vita produttiva. In questo senso, la guerra è un terremoto più che potenziato. Ma come s’è arrivati a sostenere tesi tanto controintuitive?
L’errore alla base di queste analisi consiste nell’evidenziare “ciò che si vede” (o si vuol vedere) e non ciò che non si vede (o non si vuole vedere). E vero che per realizzare bombe e droni si devo no impiegare enormi somme, finanziando ricerche e lavoratori, ma quello che non si vede è l’uso alternativo e pacifico che quelle risorse avrebbero avuto in assenza di conflitto.
Senza la guerra tra Russia e Ucraina avremmo molte persone ancora in vitae altre in buona salute; avremmo ancora città intatte e quindi enormi capitali edilizi a disposizione della popolazione; e in più avremmo tutti i benefici derivanti dall’avere investito quei denaro in attività agricole, sanitarie, scolastiche ecc. Anche la tesi, presente in tanti manuali, secondo cui l’America sarebbe uscita dalla crisi del 1929 dopo la guerra e grazie a essa si basa su un’analisi che fa da acqua da ogni parte.
Ogni persona di buon senso vorrebbe evitare la guerra anche nel caso – di per sé assurdo – che producesse crescita. E però opportuno rilevare che l’ipotesi stessa discende da teorie che hanno finito per rigettare il diritto, la pace, la naturale capacità degli uomini a scambiare e cooperare. D’altra parte, quella keynesiana è una prospettiva nella quale la sfiducia verso i mercati è compensata da un enorme favore verso la leadership tecnocratica.
Non a caso, quando nel 1936 l’opera maggiore dell’economista fu tradotta in tedesco, egli scrisse una prefazione nella quale suggerì a Hitler di adottare le sue idee: «la teoria della produzione aggregata, che è il punto cruciale del mio libro, può essere più facilmente adattata alle condizioni di uno Stato totalitario (“eines tota len Staates”) che alla teoria della produzione e della distribuzione di un’economia caratterizzata da libera competizione e un ampio grado di “laissez faire”». Nessuno stupore, quindi, se ora i suoi epigoni esaltano la guerra.
Le parole di Delle Molle sono dunque particolarmente pericolose perché rinviano a schemi condivisi dalle élite, offrendo una rappresentazione non del tutto negativa di ciò che, invece, dovremmo evitare in ogni modo: lo scontro cruento trai soggetti che sono costretti dai loro governi a battersi in conflitti sanguinosi.