Con un discorso all’Assemblea costituente e con la recensione a un testo di Antoine Élisée Cherbuliez, nel 1848 Alexis de Tocqueville interviene su due questioni assai vive in quella fase storica: la richiesta di fare del lavoro una sorta di “nuovo diritto” e la trasformazione istituzionale della Svizzera, che in quell’anno porta a compimento la propria unione federale.
Nel primo testo, lo storico e uomo politico francese si oppone alle tesi socialiste che – con l’obiettivo di evitare la disoccupazione – finiscono per dilatare il potere statale. Per Tocqueville l’idea di fare del lavoro una sorta di diritto sociale, per usare un linguaggio vicino a noi, porta lo Stato per forza a «distribuire i lavoratori così che non si facciano concorrenza tra di loro, a regolare i salari, a volte a moderare la produzione, a volte ad accelerarla: in una parola, a diventare il grande e unico organizzatore del lavoro».
Nel secondo testo Tocqueville si occupa della realtà elvetica: esprimendo inizialmente un giudizio assai negativo su quell’insieme di comunità indipendenti, slegate, incapaci di darsi istituzioni stabili. Ma all’indomani della nuova costituzione egli manifesta tutta la propria ammirazione per come, nel nuovo contesto proiettato verso Stati nazionali e democratici, gli svizzeri abbiano saputo uscire da una situazione intricata: «Da nessuna parte la rivoluzione democratica che agita il mondo si era presentata in circostanze così complicate e così strane. Uno stesso popolo, costituito da etnie diverse, che parla lingue diverse, che professa fedi diverse, che ha diverse sette dissidenti e due Chiese ugualmente costituite e privilegiate; tutte le questioni politiche, pertanto, si trasformano in questioni religiose, e tutte le questioni religiose sfociano in questioni politiche».