«Noi latino-americani non siamo contenti di noi stessi, di quello che siamo. Ma che cosa siamo? E che cosa vogliamo essere, che cosa vogliamo diventare? Il dato più generale e significativo che viene alla luce è che la storia dell’America latina, fino ai nostri giorni, è stata la storia di un fallimento».
A quarantasette anni dalla sua pubblicazione, Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario rimane una lettura indispensabile e illuminante per comprendere il Sud America: secondo l’autore, il pessimismo e l’opinione negativa che i latino-americani nutrono verso la propria società si determinerebbero nella frizione tra “mitopoiesi” e “realtà”, tra l’immagine e il ruolo che essi tendono anche forzatamente ad attribuirsi e ciò che effettivamente sono.
Dalla fine del XVIII secolo, con l’ascesa degli Stati Uniti, l’“America spagnola” si consuma nell’instabilità politica e sociale e nella frustrazione, ancora più bruciante se paragonata ai successi dei vicini a stelle e strisce. Perché si è creato tale divario nell’andamento delle rispettive economie e nella qualità delle relative istituzioni?
A cosa è dovuta una simile débâcle geopolitica e culturale? Chi voglia capire le ragioni profonde di tale scarto, troverà in queste pagine “militanti e polemiche” una sorprendente interpretazione della storia del subcontinente. Come scrive Loris Zanatta nella sua prefazione: «Il tempo passa per tutti, ma se c’è un autore che porta bene gli anni è Carlos Rangel, se c’è un libro che porta con dignità le rughe è questo: il “buon selvaggio” è sempre di moda, il “buon rivoluzionario” non muore mai. Oggi come nel 1976, quando uscì la prima edizione, l’uno è sempre pronto a travasarsi nell’altro, in America latina e altrove».