7 Marzo 2022
Corriere del Ticino
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Politiche pubbliche
Appena prima che l’Europa entrasse in una grave crisi geopolitica sul fronte orientale a causa dell’invasione russa dell’Ucraina, l’Unione tramite la Corte di Giustizia ha creato un grave elemento di dissidio interno, respingendo la richiesta avanzata da Polonia e Ungheria, che avrebbero voluto bocciare il regolamento che impedisce finanziamenti a Paesi membri non rispettosi del cosiddetto «Stato di diritto». Cosa si celi dietro a quella formula, ovviamente, non è scontato; e se un grande giurista come Hans Kelsen ebbe espressioni ironiche proprio nei riguardi del Rechtsstaat (sostenendo che un ceto politico limitato dal diritto non è davvero contenuto da esso, dato che ormai il diritto stesso non è altro che la legge, e quindi la volontà del ceto politico), è certo vero che oggi lo Stato di diritto è associato a una serie di garanzie che sono intese in modo assai diverso dalle varie culture dell’Occidente.
Al riguardo, è chiaro che si prestino a contestazioni le norme adottate dall’Ungheria in tema di educazione (finite nel mirino della comunità LGBT) e soprattutto quelle della Polonia nell’ambito della giustizia (a Varsavia il ministro competente può trasferire a compiti superiori questo o quel giudice). Bisogna chiedersi, però, se simili scelte siano legittime all’interno di società democratiche indipendenti, nelle quali le decisioni emergono dal confronto delle idee. Perché al di là delle questioni politiche e indipendentemente dall’opposizione tra la cultura prevalente a Bruxelles e la sensibilità dei Paesi del gruppo di Visegrad, quella che è in gioco è la stessa idea di Europa.
Qui non interessa più che tanto entrare nel merito delle questioni specifiche all’origine del contrasto. Si tratta invece di chiedersi se in Europa posizioni schiettamente conservatrici (in questo caso) o anche radicalmente contestatrici (in qualche scenario futuro) siano ancora legittime oppure no, o se invece siano ammesse soltanto prospettive gradite alle classi dirigenti: variamente progressiste, tecnocratiche o moderate, oppure ispirate a un ecologismo accomodante con le parole d’ordine del tempo.
Dopo la Brexit le forze maggiori dell’Unione premono per un’Europa sempre più accentrata, che realizzi una nuova sovranità continentale, senza avvertire quali conseguenze negative ne deriverebbero: in termini di buona gestione, accountability, pluralismo, concorrenza istituzionale. Tale tensione può insomma aiutare a capire se l’Unione intende essere uno spazio differenziato, anche in questioni come i valori educativi o il rapporto tra politica e magistratura, oppure se ogni singola realtà nazionale deve sottostare agli schemi di Bruxelles.
Un atteggiamento tanto ostile ai due Paesi ex-comunisti, di radicata tradizione cattolica e in larga misura conservatori, rischia infatti di indirizzare le istituzioni comunitarie verso una crescente involuzione. Non è un caso che nell’ottobre scorso il Tribunale costituzionale di Varsavia abbia deciso, a seguito di una mozione del premier Mateusz Morawiecki, che la Costituzione nazionale prevale su tutta una serie di norme europee. Quella decisione ha mirato anche a saggiare in che modo l’Unione sia pronta a far sì che i polacchi possano trovarsi a loro agio nella «casa comune», senza essere trattati quali condomini di secondo livello.
La stessa storia elvetica ha mostrato più volte che una delle maggiori virtù di un vero federalismo, basato su autogoverno e libertà di gestione, consiste proprio nel saper far sbocciare mille fiori. In questo senso, è meglio correre un limitato rischio di adottare qua e là soluzioni inadeguate invece che avere un unico centro decisionale, che in caso di errore causerebbe danni generalizzati forse nemmeno percepibili, in assenza di soluzioni alternative. Un’Europa monocorde, illiberale e che s’identifichi con la sensibilità dei tecnocrati parigini o dei socialdemocratici tedeschi può soltanto generare conflitti culturali. Prima si comprende tutto questo e meglio è.
dal Corriere del Ticino, 5 marzo 2022