Nonostante fosse febbraio, quando Roosevelt e Churchill giunsero a Yalta il clima era tiepido e il cielo sereno. La città era un’amena località con nobili ville affacciate sul mare e memore ancora di essere stata la residenza estiva dello zar. Stalin insistette per ospitare lì il vertice con gli altri due grandi alleati: pur ormai decadente, lo sfarzo della rinnegata epoca degli zar gli tornava utile per ostentare le possibilità del nascente impero sovietico. E fare gli onori di casa voleva dire comunque un debito di cortesia da parte di due leader vicini tra loro e a lui lontani.
Al ritorno negli Stati Uniti, Roosevelt era soddisfatto. Aveva concesso molto a Stalin ma confidava che con il vertice si fossero poste le basi per la ripartizione del futuro ordine mondiale. E fu così e anche più di così.
Fu a Yalta che, con l’assenso di Stalin, prese avvio un sistema politico e giuridico che avrebbe dovuto fare da guardiano della stabilità internazionale, prevenendo le aggressioni e le dispute fra gli Stati. D’altra parte, come scrisse nelle sue memorie Edward Stettinius, il segretario di Stato americano, a Yalta non era in discussione ciò che Gran Bretagna e Usa avrebbero consentito di fare all’Unione Sovietica, «ma ciò che sarebbero riusciti a far accettare all’Unione Sovietica».
Due mesi dopo, i delegati di cinquanta paesi si incontrarono a San Francisco per la conferenza che avrebbe dato vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite: una istituzione internazionale universale che, sotto l’egida delle Grandi Potenze – per le quali Stalin si era premurato di ottenere il potere di veto in qualità di membri permanenti e Churchill l’ingresso della Francia per non dover essere il solo a fare gli interessi dell’Europa -, avrebbe garantito una pace stabile e duratura.
La prospettiva dei diritti umani, che pure sarebbe uscita trionfante con la Dichiarazione Universale del ’48, non era tra le priorità iniziali. Il diritto internazionale era ancora per definizione un affare tra Stati.
Presto, l’Onu ha iniziato a mostrare tutte le sue debolezze. Non si tratta solo della questione del veto, ma di concreti fallimenti nel mantenere fede al suo mandato e di non rivelarsi un consesso di inconcludenti parolai.
Meglio però le chiacchiere che la guerra, diceva Churchill. E la retorica dei diritti umani e della pace universale, per quanto – appunto – retorica, ha dato un contributo al più lungo e ampio assetto di pace della storia. A garantirla in concreto, più che l’Onu, sarebbe stata la convenienza del reciproco riconoscimento delle sfere di influenza che maturò negli anni dopo Yalta e poi con la distensione. E, almeno per la sfera occidentale, anche la convenienza dei liberi scambi, quella stessa che ha attirato e continua ad attirare, dal finire del secolo scorso, gli Stati satellite dell’Impero sovietico verso l’Unione europea.
La domanda in testa a molti è che fine farà, con Trump, l’ordine germogliato a Yalta, codificato a San Francisco e negli anni consolidato malgrado le fragilità intrinseche dell’Onu.
Sfere di cristallo a parte, ciò che per ora comprendiamo è che l’attuale Presidente degli Stati Uniti non ha molto rispetto per le istituzioni internazionali che provengono da quell’ordine.
Ha ritirato il Paese dal Consiglio Onu per i diritti umani e dall’Organizzazione mondiale della sanità, come già aveva fatto nel primo mandato. Nei giorni scorsi, ha imposto sanzioni contro la Corte penale internazionale. Per quanto la CPI non sia un’istituzione dell’Onu, è pur sempre figlia della stessa idea che l’ordine internazionale non sia solo un affare tra Stati, ma un sistema di sorveglianza reciproca a tutela degli individui.
Le accuse e le decisioni di Trump sono da prendere sul serio, per due motivi. In primo luogo, perché sono il frutto anche dei fallimenti, se non della fine, di quella idea, di cui forse solo noi europei ancora non ci siamo accorti. In secondo luogo, perché possono essere l’anticipo di un ordine diverso, che lo stesso Trump prova a intestarsi con le sue proposte di pace in Ucraina e a Gaza.
Il mondo nuovo emerso da Yalta ha compiuto ottanta anni. Si può decidere di ridicolizzare le scelte di Trump attaccandoci a quel mondo che intanto si è fatto vecchio (o forse è morto), o si può decidere di cogliere l’occasione per fare quello che si fece allora: immaginare un futuro migliore del passato e porne le condizioni per una sopravvivenza più duratura possibile.
Se fosse in grado di battere un colpo, l’Europa – cioè il continente dove ha visto la luce un sistema di convivenza basato su diritti, limitazione del potere politico e mercato – dovrebbe batterlo ora. Non per rispondere alle minacce di dazi con minacce di azioni antitrust, o all’espansione economica altrui con debito proprio, ma per richiamare una parte di risorse, merci, scambi, ricerca che finora sono stati catalizzati dal Nuovo continente.
La settimana scorsa, il premier britannico Starmer ha partecipato al vertice informale dell’Unione europea sulla difesa. L’Europa (e gli Usa) del potere limitato, dei diritti e delle libertà anche economiche non sarebbero esistiti senza il Regno Unito. Il riavvicinamento tra questo e l’Unione europea potrebbe essere un primo, timidissimo ma importante segno verso qualcosa di buono