Le partecipate dello Stato usciranno da Confindustria? L’idea non è nuova e in passato a parlarne più volte è stato Matteo Salvini. Per la componente pentastellata del governo Confindustria significa «lobby», parola fra le più sinistre del vocabolario politico. Di per sé, questa potrebbe non essere, per l’organizzazione dei datori di lavoro, una brutta notizia. Molto spesso a Confindustria si è rimproverata un’identità ormai ibrida, una vicinanza eccessiva alla politica, un certo condizionamento che passa anche dalla presenza, nelle sue file, delle corazzate del capitalismo di Stato. L’uscita delle partecipate potrebbe restituire un’identità chiara a un’associazione che ha un senso e un’anima proprio nel momento in cui rappresenta la libera impresa.
Attenzione, però. Con l’eccezione di Telecom, ceduta integralmente dal governo Prodi e forse proprio per questo oggetto di continui tentativi di condizionamento da parte dei governi fino al recente ingresso della Cassa Depositi e Prestiti, e dei monopoli dei tabacchi, l’Italia ha privatizzato a spizzichi e bocconi. Il Tesoro possiede tutt’oggi il 24% di Enel, il 30% di Poste Italiane (un altro 35% è della Cdp), il 30% di Leonardo/Finmeccanica, il 4% di Eni (cui si somma il 24% della Cdp), il 50% dell’Enav, per limitarci alle quotate. L’ingresso di investitori privati ha cambiato le prassi di gestione, avvicinandole sempre più a quelle «di mercato». Ciò richiede che gli amministratori gestiscano l’azienda pensando a creare valore per tutti gli azionisti, godendo dei medesimi gradi di autonomia che hanno i loro colleghi di aziende paragonabili. Obbligarli a uscire da Confindustria significa, né più né meno, dir loro che non possono decidere di aderire a una certa associazione. Questo suggerisce che possa venir detto loro che debbono invece sostenerne delle altre: magari una nuova Intersind, la vecchia organizzazione sindacale delle aziende Iri.
E’ vero che un manager può portare la sua impresa in questa o quella compagine per ambizione o relazioni personali. Ma lo è altrettanto che è lui che, ben meglio del Ministro dell’economia, sa di quali servizi la sua impresa ha bisogno.
Lo Stato detiene il 50% dell’STMicroelectronics e per intero Ferrovie dello Stato e Rai. Poi c’è il vasto arcipelago delle public utility. E naturalmente il Monte Paschi, che è a tutti gli effetti una banca dello Stato e che pure fa parte dell’Associazione bancaria italiana.
Dove si traccia la linea? Nel nostro Paese si sente la mancanza, non da oggi, di una chiara separazione fra politica ed economia. Imprenditori e manager perseguono il proprio interesse, e cercano, com’è naturale, di avvantaggiarsi di ogni opportunità che viene offerta loro. Bisognerebbe coltivare il senso del limite, dovrebbe esser chiaro che ci sono porte che non vanno aperte, senza cedere alle seduzioni e senza giocare coi ricatti. Ciò è tanto più difficile quanto più la politica è onnipresente e pervasiva. Per questa ragione, una misura che vorrebbe allontanare Stato e mercato potrebbe avere l’effetto opposto.
Se la logica è che lo Stato farà sempre di più, anche le imprese private ne saranno sempre più dipendenti: cercheranno di posizionarsi per diventarne fornitori e partner. Per ridurre gli spazi opachi, le aree nelle quali il lobbismo si fa più torbido, c’è un solo modo: vendere e decidere che la politica rinuncia a fare certe cose, per esempio mettersi in concorrenza col privato quando c’è o acquisire quote in aziende che sono al di fuori del suo perimetro. Cioè l’esatto contrario di quanto ogni giorno il governo lascia intendere.
Da La Stampa, Mercoledì 19 Dicembre 2018.