Il coraggio di fare tre cose per la Liguria

La regione sembra trovare consolazione nel passato: che tutto si sgretoli lentamente, pur di non ricostruire in modo diverso

10 Febbraio 2014

Il Secolo XIX

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Le distanze non si misurano più in chilometri: si misurano con l’orologio e il portafoglio. Con questo metro, Genova è lontana e si allontana da tutto.
Avvicinarsi al mondo è necessario perché riduce i costi di transazione e aumenta la produttività totale dei fattori. Se devo trasportare le mie merci su una creuza, non importa quanto io sia bravo: perderò sempre contro chi può raggiungere in modo rapido, economico e affidabile i mercati di destinazione. La Liguria tre cose deve fare: far funzionare quello che c’è, rinnovare ciò che è obsoleto, dotarsi di quel che manca.

Partiamo dai dati. Nel 2003 l’aeroporto di Genova aveva circa un milione di passeggeri, grosso modo come Lamezia Terme (1,1 milioni). Nel 2012 Genova era a 1,4 milioni, Lamezia a 2,2: perché? Perché Lamezia ha saputo intercettare vettori low cost (che valgono circa la metà del suo traffico), Genova no (appena il 30%). Per quel che riguarda le ferrovie, la Liguria ha i pendolari meno soddisfatti (41,1%), contro una media nazionale del 49,7%.
Qualità e frequenza delle corse sono incommentabili. La fotografia di un’intera regione è il treno in bilico ad Andora. Siamo nati col binario unico, che quand’è arrivato fu una benedizione e modernissimo, ma di binario unico potremmo morire, perché il resto del mondo si evolve, impara, cresce. La Liguria sembra invece trovare consolazione nel passato: che tutto si sgretoli lentamente, pur di non ricostruire in modo diverso. Che nulla cambi è la condizione perché le stesse rendite continuino a essere estratte in saecula saeculorum.
E l’ora di dire basta. Infrastrutture, treni e bus sono un servizio a viaggiatori e merci (dunque al porto), non il contrario. Gli orari dei mezzi devono essere scanditi dai bisogni dei cittadini e delle imprese, non viceversa. Lanciamo una provocazione: chi ha il coraggio di sparigliare?

Far funzionare quello che c’è: dare l’aeroporto a chi sa gestirlo, senza quelle limitazioni (conservatrici, pure loro) che hanno fatto andare buca la gara del 2013.
Non c’è ragione al mondo per cui lo scalo di Genova non possa crescere. Rendere moderno ciò che è obsoleto: stop ai carrozzoni del trasporto pubblico e a un trasporto pubblico modellato su un mondo che non c’è più. Ogni euro usato a mo’ di morfina per alleviare la sofferenza di aziende sull’orlo della bancarotta è un punto di Tares (citofonare Amt).

Procurarsi quel che manca: il Terzo valico e la gronda, in primo luogo, esorcizzati finora da chiacchiere, distintivo e resistenze più o meno palesi. Ma anche aree e spazi dove le imprese possano insediarsi, investire e crescere senza essere poste continuamente sotto tutela. Serve un governo del territorio plurale e aperto. Gli amministratori dovrebbero ragionare alla Forrest Gump: “la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”. Abbandonare, cioè, la pretesa di stabilire ex ante chi deve fare cosa e dove, e ancor più la mitologia secondo cui, se il bisnonno del mio bisnonno faceva l’arrotino in un certo posto, in quello stesso posto e con gli stessi mezzi dovrà fare l’arrotino il nipote di mio nipote.
Un politico che metta in discussione lo status quo è condannato alla sconfitta? Forse, ma forse no. Se ha una visione ed è credibile nel proporla, può ottenere consensi. Se mantiene le promesse, farli crescere. Chi decide divide, ma vince le elezioni.

Da Il Secolo XIX, 8 febbraio 2014
Twitter: @CarloStagnaro      

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