L’Italia non cresce ma abbiamo smesso di considerarlo un problema. Il programma delle nostre classi dirigenti ormai è «gestire il declino». Negli ultimi giorni ne abbiamo avuto più d’una conferma.
Non è ben chiaro cosa ci sia nel nuovo Documento di economia e finanza del governo. E’ chiarissimo però cosa non c’è: nuove privatizzazioni, nonostante la necessità di ridurre il debito pubblico.
Il ddl concorrenza è ancora al vaglio del Parlamento, ma ha perso per strada la misura più rilevante: la piena liberalizzazione dei mercati retail dell’energia elettrica e del gas, rinviata di un anno.
In compenso i nostri legislatori si preparano a votare una modifica della legge Levi, che regola il prezzo dei libri per far dispetto ad Amazon. Questo genere di mercanzia, pure non popolarissimo in Italia, già oggi non può subire sconti in misura maggiore del 20%: si vuole ridurre lo sconto massimo possibile al 5%.
Dopo che nel 2015 il tribunale di Milano aveva chiuso la porta a UberPop, il servizio che consentiva a chiunque di dare, in qualsiasi momento, un passaggio a pagamento in automobile, il Tribunale di Roma ha messo fuori legge anche UberBlack, la App che metteva gli autisti di Ncc in contatto con i loro potenziali consumatori.
Mancano pochi giorni a Pasqua e i sindacati affilano le armi contro l’outlet di Serravalle, che vorrebbe restare aperto.
Si tratta di eventi e decisioni di natura diversa, e di impatto non paragonabile sulla nostra economia. Ma sono variazioni sul medesimo tema. L’obiettivo è tutelare lo status quo, quali che siano i costi per il resto del Paese.
La tanto sospirata «crescita» consiste in un aumento delle transazioni, delle cose che si acquistano e che si vendono. Perché s’intensifichino le compere, condizione non sufficiente ma necessaria è che gli scambi possano avere luogo. Le famiglie hanno tempo e voglia di fare spese durante le feste: ma non lo faranno, se trovano la saracinesca abbassata. Proibire a librai ed editori di fare sconti non porterà a vendere più libri. Mettere al bando Uber non significa colpire una multinazionale: se gli Ncc non potranno più cercare clienti con la App, verosimilmente diminuirà il numero delle loro corse.
Si dirà: poco male. Perché l’interesse dei «consumatori» dovrebbe valere più di quello dei «produttori»? Anche tutelando il reddito di certe categorie si garantisce che «circolino quattrini», per usare una delle formule più trite della chiacchiera da bar.
Il guaio è che tutto ciò peggiora l’efficienza del sistema nel suo complesso: impedisce che quei quattrini possano essere impiegati in luoghi dove risulterebbero meglio spesi, per scopi che si rivelerebbero più profittevoli. Un mercato elettrico pienamente liberalizzato limiterebbe sprechi e duplicazioni, segnalerebbe eventuali necessità d’investimento, attrarrebbe nuove imprese. La privatizzazione delle imprese pubbliche, oltre a ridurre il debito, eviterebbe che le decisioni di produzione siano asservite a logiche tutte politiche.
Possiamo rifiutare queste sfide e arroccarci in un «modello sociale» dove per la concorrenza c’è poco spazio. A patto di riconoscere che questa scelta ha un costo: il costo delle opportunità perse. Che sarà probabilmente tanto più elevato quanto più il resto del mondo invece continua a innovare.
Stupisce la leggerezza con cui ci siamo incamminati su questa strada. Forse le nostre classi dirigenti sono le prime vittime della loro stessa propaganda: si sono convinte che un Paese come il nostro, dove la spesa pubblica supera la metà del Pil, debba i suoi guai a un eccesso di «liberismo».
Il liberismo avrà senz’altro molti difetti. Ma non si capisce davvero come si faccia ad attribuirgli quelli di un Paese che regola persino gli sconti dei libri.
Da La Stampa, 14 aprile 2017