«Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare (…). Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato». La lunga citazione, benché incompleta, è di colui che più di tutti si è speso per demolire proprio quel che elogia: il capitalismo, la borghesia, il mondo moderno. È sostenuto da diversi studiosi come Marx fosse schizofrenico: e la citazione riportata, unita al suo odio anticapitalistico, lo dimostra.
Il «filosofo della storia più potente e sintetico che sia apparso nel XIX secolo» — così definito dallo storico francese François Furet — ha forgiato e continua a forgiare l’armamentario ideologico che va per la maggiore (insieme a Rousseau). Come? È sufficiente leggere la gran parte dei testi di storia, geografia e filosofia adottati a scuola. Ed è quello che hanno fatto tre docenti: uno di liceo, Andrea Atzeni, e due universitari, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri. Il risultato è “A scuola di declino. La mentalità anticapitalistica nei manuali scolastici“, appena pubblicato da Liberilibri. L’intento non è quello di squalificare moralmente chi è imbevuto consapevolmente o meno di marxismo, dal momento che le idee possono essere le più diverse, bensì di evidenziare il ruolo cruciale svolto da un’interpretazione della storia umana — quella marxista — che intende segare le radici della prosperità e della libertà che si sono manifestate nell’area occidentale. È già il titolo a dire tutto. Crescendo gli alunni, le cui menti sono facilmente plasmabili, a pane e anticapitalismo, non è difficile immaginare non solo come chi arrivi all’università a studiare storia o scienze politiche consideri Marx il filosofo della libertà e Adam Smith il teorico del fallimentare liberismo selvaggio. La cosa è più profonda. Si alimenta un pregiudizio che farà parte — a meno di una non facile disintossicazione che passa da leggere libri differenti, incontrare maestri che hanno altre idee, e dall’usare un po’ di buon senso — per tutta la vita del Dna di una persona.
Il ritardo culturale dell’Italia, scrivono gli autori, si deve soprattutto a questo: a un’imputazione causale errata, che però viene concepita alla stregua di un dogma religioso. Il mercato è sempre selvaggio, lo statalismo è sempre benefico. John Maynard Keynes sosteneva che «le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro». A giudicare dalla ricognizione effettuata sui testi scolastici e dalle conseguenze visibili delle idee veicolate, c’è poco da stare allegri. Ma la speranza, seppur flebile, di guarire dall’ubriacatura ideologica rimane. Un buon inizio è leggere questo libro.