Il deficit preso sul serio

Quanta crescita serve perché il piano di Renzi funzioni? La realtà dei numeri

18 Luglio 2017

Il Foglio

Nicola Rossi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

“Un accordo in cui l’Italia si impegna a ridurre il rapporto debito/Pil tramite sia una crescita più forte, sia un’operazione sul patrimonio che la Cassa depositi e prestiti e il ministero dell’Economia e delle Finanze hanno già studiato, sebbene debba essere perfezionata; essa potrà essere proposta all’Unione europea solo con un accordo di legislatura e in cambio del via libera al ritorno per almeno cinque anni ai criteri di Maastricht con il deficit al 2,9 per cento. Ciò permetterà al nostro paese di avere a disposizione una cifra di almeno 30 miliardi di euro per i prossimi cinque anni per ridurre la pressione fiscale e rimodellare le strategie di crescita. La mia proposta è semplice: questo spazio fiscale va utilizzato tutto, e soltanto per la riduzione delle tasse, per continuare l’operazione strutturale iniziata nei mille giorni”. Così Matteo Renzi descrive il suo progetto: portare il deficit pubblico in prossimità dei limiti di Maastricht (3 per cento), usare le risorse così liberate per ridurre le imposte e per operazioni strutturali, abbattere il debito per via della conseguente e più sostenuta crescita. Prendiamolo sul serio e domandiamoci: sotto quali condizioni è legittimo immaginare che la proposta possa produrre il risultato voluto?

Cominciamo con il chiarire un punto: i 30 miliardi di euro di cui sopra, presumibilmente non sono altro che nella media del quinquennio 2018-2022 la differenza fra un disavanzo pari al 2,9 per cento (l’obbiettivo di finanza pubblica) e il disavanzo previsto dal recente Documento di economia e finanza (pari per l’anno 2018 all’1,2 per cento). Fatta questa premessa, è appena il caso di ricordare che la dinamica del rapporto fra debito e prodotto è guidata da pochi fattori. Il rapporto fra avanzo primario e prodotto (che se positivo determina una riduzione del rapporto fra debito e prodotto, a parità di altre condizioni) e la differenza fra tasso di interesse sul debito e tasso di crescita dell’economia (e cioè la differenza fra il costo del servizio del debito e le risorse aggiuntive che la crescita dell’economia mette a disposizione dell’emittente). Quest’ultima differenza pesa tanto più quanto maggiore è il rapporto fra debito e prodotto. Per valutare la attendibilità della proposta lanciata dal segretario del Partito democratico è necessario, quindi, fissare uno scenario di riferimento e domandarsi se e con quali esiti la proposta possa modificarlo. Prescindendo, va da sé, dalle riserve europee in argomento già emerse con nettezza inusuale.

Per quanto già superate dalla recente lettera del ministro dell’Economia alla Commissione europea, un ragionevole punto di partenza è dato dalle previsioni del governo in carica. La tabella che segue riproduce, nella prima parte, la dinamica del rapporto fra debito e prodotto già presente nel Documento di economia e finanza 2017 estendendola oltre il periodo di analisi del Documento. Com’è noto, la previsione ufficiale incorpora avanzi primari crescenti (e prossimi, nella fase finale del quinquennio, al 4 per cento), proventi da privatizzazione limitati ma costanti nella prima parte del periodo di previsione nonché un andamento del costo del debito relativamente costante (se non addirittura lievemente discendente nel 2018 e 2019) in ragione di un effetto “credibilità” capace di controbilanciare e forse addirittura superare eventuali spinte al rialzo dei tassi dell’area dell’euro. Sull’orizzonte quinquennale, il rapporto fra debito e prodotto si ridurrebbe di circa 14 punti percentuali (scendendo nel 2022 in prossimità del 119 per cento), andando non poi così lontano dal rispetto della “regola del debito” contenuta nel Fiscal compact.

E’ rispetto a questo scenario che va valutata la proposta avanzata dal segretario del Pd. La prima, ovvia, differenza rispetto allo scenario di riferimento sarebbe data naturalmente dal profilo temporale del disavanzo: 2,9 per cento dal 2018 al 2022. La seconda, e meno ovvia, differenza sarebbe data, con ogni probabilità, da un diverso e crescente profilo temporale del costo del debito che possiamo immaginare che intervenga a partire dal 2018 comportando un incremento del costo del debito pari a 0,7 punti percentuali alla fine del quinquennio (una previsione tutto sommato fin troppo moderata alla luce del combinato disposto del tapering della Bce e dei previsti maggiori disavanzi). Dato il profilo del servizio del debito, l’avanzo primario tenderebbe a contrarsi attestandosi intorno al 2 per cento alla fine del periodo. Infine, la terza differenza sarebbe data da un programma estremamente significativo di privatizzazioni capace di mobilizzare oltre 3 punti percentuali di prodotto nel quinquennio (rispetto allo scarso punto previsto dal Documento) e presumibilmente centrato sul trasferimento al di fuori del perimetro delle pubbliche amministrazioni delle partecipazioni detenute dal Tesoro.

Sulla base di queste informazioni e di un profilo dell’inflazione leggermente più ripido nella seconda ipotesi in ragione del diverso ritmo di crescita dell’economia è possibile a questo punto porsi la domanda rilevante: in questo contesto, quale tasso di crescita del prodotto, in termini reali, assicurerebbe alla fine del 2022 il raggiungimento quantomeno dello stesso livello del rapporto fra debito e prodotto previsto dal Documento di economia e finanza? La risposta è semplice: avremmo bisogno di tassi di crescita reali crescenti dall’1,5 per cento del 2018 al 3,5 per cento del 2022. E’ plausibile? Negli ultimi vent’anni è accaduto solo una volta che il tasso di crescita in termini reali superasse il 3,5 per cento: era il 2000 e l’euro era da poco una realtà (e l’Eurozona cresceva al 3,8 per cento). Fra il 2,0 e il 3,0 per cento ci siamo andati solo una volta: nel 2006, prima che la crisi finanziaria scoppiasse (con l’Eurozona al 3,2 per cento). Per il resto, ad andare bene, calma piatta. Insomma, tornare a crescere intorno al 3,5 per cento alla fine del quinquennio non sarebbe impossibile ma sarebbe piuttosto improbabile (anche alla luce delle stime correnti circa il presumibile impatto sul prodotto di riduzioni della pressione fiscale in disavanzo e dell’esperienza dell’ultimo triennio) e, nelle condizioni date di finanza pubblica, piuttosto rischioso. Certo, la crescita libererebbe nel tempo risorse aggiuntive ma il Parlamento non tarderebbe ad accorgersene. Se, come non si può certo escludere, il profilo del costo del debito dovesse rivelarsi più ripido, arrivare lì dove arriva il Documento di finanza pubblica (un obbiettivo al quale sembra non credere lo stesso governo) sarebbe ancora più difficile. E non parliamo poi dell’ipotesi in cui l’obbiettivo fosse dato dalla mitica soglia del 100 per cento nel rapporto fra debito e prodotto: in questo caso, infatti, dovremmo crescere più o meno come l’Indonesia e non molto meno della stessa Cina. Sono rischi economici, finanziari e politici che varrebbe la pena di correre, per raggiungere peraltro obbiettivi raggiungibili altrimenti? Gli incerti benefici domestici derivanti da un duro confronto con la Commissione Europea e con gli altri stati membri supererebbero i costi certi connessi ad una marginalizzazione del paese in sede europea?

Com’è noto, in campagna elettorale anche gli asini volano. Non ce ne voglia il segretario del Pd se gli ricordiamo che, spesso, hanno anche la tendenza a ricadere pesantemente in terra. In alcuni casi anche prima del previsto.

Da Il Foglio, 18 Luglio 2017

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