Il filosofo e matematico Alfred North Whitehead ha scritto che un contrasto tra idee non è mai un dramma, quanto piuttosto un’opportunità. Sembra questa la cifra del libro scritto da Emanuele Felice e da Alberto Mingardi: Libertà contro libertà. Un duello sulla società aperta (Il Mulino, pagine 256, euro 17,00). Entrambi docenti dello Iulm di Milano, hanno interpretato nel migliore dei modi l’aspetto più bello della vita accademica: vivere il pluralismo e la dimensione critica del pensare.
Partendo da posizioni distanti, si sono interrogati sul medesimo concetto: la libertà, e l’hanno articolato secondo uno schema che prevede la dimensione etica, economica e politica. Sotto il profilo metodologico, Felice e Mingardi, nelle loro rispettive riflessioni, non manifestano alcuna buffa pretesa di fare una sintesi.
La sintesi presume che esista un punto di vista superiore che inglobi le differenze e che possa tenere dentro le diverse opzioni, annullando, di fatto, la ricchezza del pensiero critico che consente di ricercare l’errore ovunque si annidi e di correggerlo, senza per questo mettere il punto che segni il definitivo approdo: “Hic manebimus optime”. Il fatto è che non esiste un “qui” uguale per tutti, uno “stare” definitivo e un “ottimo” universalmente riconosciuto.
Sulla base di tali premesse metodologiche, gli autori affrontano una serie di questioni storiche, filosofiche, politiche ed economiche che raggrupperei nei seguenti tre punti; in primo luogo, esiste il senso della storia? In secondo luogo, in che modo il liberalismo politico incrocia l’emancipazione individuale? Infine, quale potrebbe essere, in termini liberali, il destino dell’Europa? Per quanto riguarda il primo aspetto, le posizioni dei due autori divergono profondamente. Mentre Felice, sul fronte del liberalismo progressista, sembra proporre un’idea lineare della storia, il cui senso corrisponderebbe con una direzione che procede, pur tra cadute e riprese, inesorabilmente verso la conquista di sempre nuovi diritti, per Mingardi, più prossimo al liberalismo classico, la storia non presenta alcuna direzione obbligata, seguendo un ritmo processuale aperto. In questa prospettiva liberale classica, i fenomeni e le istituzioni sono, in gran parte, il prodotto non intenzionale di azioni umane volontarie; la nozione di “processo” prende il posto di quella di “progresso’; senza alcun giudizio preventivo positivo o negativo sul futuro.
Con riferimento al secondo aspetto, entrambi riconoscono che il liberalismo politico coincide, storicamente, con la conquista di una serie di diritti individuali che vanno dalla libertà di coscienza in materia religiosa all’abbattimento degli istituti feudali che impedivano lo sviluppo della libera concorrenza e della relativa emancipazione economica, oltreché politica. Le differenze tra gli autori emergono lì dove, mentre Mingardi ritiene che un fondamento religioso sia indispensabile per radicare l’idea di libertà nella concreta esperienza storica: l’idea di persona e l’antropologia che ne segue sono dirimenti, per Felice è possibile prescindere da tale radicamento religioso e individuare una qualche forma di etica laica che tenga insieme individui che la pensano in maniera anche molto diversa.
Infine, il tema dell’Europa. Anche qui siamo di fronte a due prospettive decisamente differenti. Da un lato, semplifico molto e me ne scuso, Felice propone l’ideale europeista di tipo federale, sulla scia del Manifesto di Ventotene, dunque il superamento della Stato nazione a favore dello Stato europeo, la tragedia della Seconda Guerra mondiale spinse gli estensori di quel Manifesto a teorizzare il superamento della nozione di sovranità nazionale, per implementare una sovranità di tipo continentale. D’altra parte, l’europeismo di Mingardi va in un’altra direzione, più vicina a quella dei padri fondatori del processo d’integrazione europea: Adenauer, Schumann, De Gasperi, immaginando il superamento non solo della nozione di sovranità nazionale, ma anche della sovranità in sé, proponendo una disarticolazione funzionalista della stessa che prevede una serie di istituzioni in capo alle quali siano riconosciute singole funzioni; è questa una soluzione poliarchica che, se da un lato teme lo Stato nazionale sovrano, dall’altro teme ancor di più lo Stato europeo sovrano, perché il problema non è la dimensione dell’autorità potestativa, ma la sua stessa pretesa sovranità e il principio monista che l’accompagna.
Credo che questi tre punti costituiscano le coordinate per orientarsi nell’arcipelago liberale e per scegliere quale liberalismo contemporaneo interpreti meglio l’idea di persona per la quale riteniamo valga ancora la pena vivere e lottare.