27 Novembre 2018
Il Foglio
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Libertà dei mercati, in cui le lobby non la facciano da padroni; mobilità del lavoro e, invece della protezione ad infinitum di imprese decotte, spostamento di risorse da settori e imprese meno produttivi a quelli più produttivi; premi al merito per favorire la mobilità sociale; una tassazione che non penalizzi chi lavora; blocco dei trasferimenti a pioggia a questa o quella categoria che riesce ad alzare la voce più di altre. Dieci anni fa era alla sinistra che bisognava insegnare che liberalizzare fa bene all’economia, e non solo. “Il liberismo è di sinistra”, il libro di Alesina e Giavazzi del 2007, voleva dimostrare che le ricette liberali sono coerenti con i principi cardine della sinistra, anzi sono i soli che li possono inverare.
Il loro libro parlava alla sinistra. Degli elettori che per tre volte mi hanno mandato in Senato, alcuni lo fecero perché confidavano che io avrei seguito quelle indicazioni, altri perché invece si fidavano del partito: ma nessuno pensò che io avrei liberalizzato in quanto di sinistra.
Dieci anni dopo, Alesina e Giavazzi (Corriere della Sera, 19 settembre 2018), ripropongono la loro tesi. A chi vogliono rivolgersi? A coloro che hanno votato per chi ora ci governa? Certo che in quel campo “la negazione del liberismo è evidente”. Ma i nostri autori sanno bene che non serve rendere evidente la contraddizione tra gli obiettivi che i gialloverdi professano di perseguire e le politiche che dovrebbero raggiungerli, anche a prescindere dal pressapochismo dilettantesco con cui cercano di implementarle. Perché quella che i loro immaginari interlocutori rifiutano è la logica che fa emergere questa contraddizione, la logica delle forze impersonali dell’economia, regolarmente trasfigurata in una cospirazione degli gnomi di Zurigo o simili; logica pagante, perché le forze impersonali dell’economia o non piacciono o non sono comprese.
Neppure avranno pensato di rivolgersi alla sinistra per la presunta affinità tra M5s e una qualche sinistra, e per l’ipotesi di un governo in cui questa valesse a riportare il Movimento nei binari della logica di governo e a mantenerli nella prassi della democrazia, ipotesi di cui quanto è avvenuto in questi mesi è valso a dimostrare l’assoluta inconsistenza. Quando sono in molti a pensare che sia impossibile arrestare le colonne dei lemuri verso le rocce della Norvegia, ha senso, addirittura è possibile rivolgersi solo alla sinistra e non anche alla destra? E questo non per ovvie ragioni quantitative, e neppure perché è dubbio che sia ancora possibile, nell’epoca del sovranismo populismo, leggere la società secondo il cleavage destra – sinistra. Innanzitutto non è affatto scontato che la destra non abbia altrettanto bisogno di una lezione liberista. Ma soprattutto è diventato drammaticamente evidente che la sinistra ha una difficoltà in più rispetto alla destra ad accettare un programma di liberalizzazioni, una difficoltà che direi ontologica. Era ancora sottotraccia 10 anni fa, si è ingigantita, è dilagata e ora occupa il centro della scena politica: la richiesta di protezione. Liberalizzare è cambiare, il cambiamento genera incertezza, e non si può proporre incertezza a chi chiede protezione. La sola condizione perché la proposta possa essere accettata è associare al merito una politica di sicurezza che, per rendere l’idea, direi salviniana.
Alesina e Giavazzi si rivolgono esplicitamente agli elettori del Pd: e questo è fonte di ulteriori problemi. Anche se questa non è l’unica opposizione – quel che resta di Forza Italia lo fa meglio e sulle cose -, anche se il Pd fa opposizione accusando il governo di non realizzare le sue promesse come se fossero realizzabili e non denunciandolo perché sono sbagliate, certo che (quello che resta della sua organizzazione è comunque una risorsa preziosa. Ma che un Pd compattamente (e già questo suona ottimistico) deciso a “costruire un programma liberista” sia il germoglio da cui può nascere un’opposizione in grado di contendere il governo del Paese all’attuale alleanza sovranista-populista, appare per più ragioni impossibile. Non solo per una questione di dimensioni, perché ci sono casi, anche recenti, di crescite travolgenti; e neppure per una questione di cultura e di immagine, che potrebbero anche dare un contributo positivo. Ma per una ragione di fondo che rende questa prospettiva impossibile, una ragione ostativa: i governi di sinistra hanno fatto gli stessi errori che rimproveriamo al governo del “contratto”.
Gli stessi non nella misura, in generale molto minore, ma che hanno spianato la strada a chi è venuto dopo. E questo rende non credibili proposte che, al punto in cui siam giunti, devono essere di una diversità non incrementale, ma radicale.
Alcuni esempi.
Molti di quelli che diventeranno gli assi portanti della politica antieuropea dei gialloverdi sono stati usati da Renzi stesso. Dalla “pazza idea”, nel gennaio 2016, di riuscire a rinegoziare il trattato che prevede il fiscal compact (Claudio Cerasa, il Foglio 9 gennaio 2016); al ” fallimento dell’austerity” e alle accuse alla Germania per lo squilibrio delle partite correnti, come se esso fosse pari e patta con lo squilibrio del nostro debito (Maria Luisa Meli, Corriere della Sera, 17 settembre 2016); alla sfida, già lanciata da premier (discorso alla Camera, 19 marzo 2014), vergata di suo pugno tre anni dopo (il Sole 24 Ore, 9 luglio 2017), di fare un deficit del 2,9 per cento per cinque anni. Ottenne flessibilità, ma andò in spesa corrente anziché in investimenti per la crescita. E così il maligno trovò il terreno dissodato quando di notte venne a seminar la zizzania. Come si è letto ieri, è proprio il debt report from the Commission a delineare la continuità di politica fiscale tra quella accomodante degli anni renziani e quella prevista dal 2019 in poi.
Sulla banda ultralarga Renzi in persona ha: primo, scelto una tecnologia, FTTH, per dare a tutti i 30 Mb definiti da Bruxelles; secondo, finanziato l’offerta di connessione nelle zone “a fallimento di mercato”; terzo, indotto Enel a installare e Cdp a cofinanziare una rete pubblica. E’ stato poi con Gentiloni premier e Calenda ministro dello Sviluppo che Cdp ha acquistato il 4,5 per cento di Tim, intervenendo nella proxy fight di un’azienda sua concorrente, per giunta quotata, e così fornire a Elliott i numeri per scalzare Vivendi. Qui non è più solo un campo dissodato, sono una strategia e gli strumenti per realizzarla che sono stati predisposti e consegnati al governo sovranista per l’esecuzione. Esecuzione in senso letterale, perché Tim senza rete sarà solo più una rete commerciale, disponibile nel consolidamento di mercato che AGCom vorrà consentire. E’ poi sempre con Gentiloni e Calenda che si è deciso di non cogliere le occasioni – che pure c’erano – di risolvere la vicenda Alitalia, offrendo così a Matteo Salvini gli argomenti retorici per avvolgersi nella bandiera dando alla compagnia il compito di convogliare i turisti stranieri (e la licenza di continuare a drenare i risparmi dei connazionali).
E poi c’è quella che Claudio Cerasa chiama “la sinistra incapace di uscire dal Novecento”. Pur dando il rituale riconoscimento alla formale alterità e reciproca indipendenza tra sinistra sindacale e sinistra politica, la sostanziale consonanza e l’effettiva convergenza sono di antica data e di palmare evidenza. Vanno quindi rivolte anche alla sinistra politica gli interrogativi che Claudio Cerasa pone alla sinistra sindacale (“La sinistra sindacale ha un eroe, si chiama Salvini”, 19 novembre 2018): se essa abbia la legittimità per addossare solo a governo e maggioranza l’avere dato il via a una legge sul lavoro che abolisce il Jobs Act, o in tema di modifica della legge Fornero, di delocalizzazioni, di nazionalizzazioni, di assistenzialismo, di giuro, di spesa pubblica in deficit.
Nessuna intenzione di entrare nella contesa in corso nel Pd per la segreteria, e neppure nelle discussioni se sia il Pd il nucleo adatto per aggregare quanti possono essere convinti che liberalizzare sia bene per il Paese. Le storie e il potere evocativo dei nomi, di persone e di partiti, possono sospingere o appesantire. Non si tratta di pretendere facili autocritiche o superficiali abiure, solo per evitare di vedersi rinfacciare dagli avversari passati imbarazzanti. E’ necessario essere intimamente convinti che quello che contrastiamo e contestiamo a Lega e 5 Stelle non sono solo virgulti da tagliare, ma che questi hanno radici, ed è lì che bisogna risalire, alle biforcazioni ideologiche, alle dimenticanze colpevoli, agli sbagli strategici.
Vengono di lì le fioriture del populismo e del sovranismo. Sono nostre, e nessuno può chiamarsi fuori.
Da Il Foglio, 27 novembre 2018