L’interesse del governo non è correggere le storture che hanno causato la tragedia del ponte Morandi. Per Alberto Mingardi, politologo e direttore del think tank liberale Istituto Bruno Leoni, dietro le mosse del vicepremier Di Maio c’è semmai il tentativo di «trarre il massimo profitto» dal crollo e di risvegliare il mito dello Stato imprenditore.
Il vicepremier leader del M5S vuole chiedere i danni ai governi passati. Prima ha stracciato la convenzione con Autostrade. È una risposta adeguata?
«Il crollo è un fatto, una tragedia terribile, un immenso problema per una città e un territorio. Il governo però ha deciso che, mentre debbono ancora essere accertate le dinamiche, la priorità fosse trarre il massimo profitto dall’incidente sul piano politico. Più che a un dibattito sulle concessioni, assistiamo a una partita tutta politica. Il governo si è scelto un nemico, per giunta naturalmente antipatico (è una società che esige pedaggi), per consolidare la sua reputazione tribunizia. Si può essere bravi tribuni e buoni ingegneri nello stesso tempo?»
Ha senso tenere segrete le convenzioni?
«No, non ha senso. Ne ha tratto vantaggio proprio il governo: le convenzioni segretate sembrano confermare la sua tesi, cioè quella di uno scambio improprio fra concessionario e governi precedenti. Sono accuse gravi sul piano personale, ma per ora le presunte prove sono risibili. È arduo sostenere che la vecchia politica fosse fatta di concussori, ma che nello stesso fossero concussori così stupidi da vendere la fontana di Trevi per una fornitura di detersivi».
È realistico pensare che la ricostruzione del ponte possa essere fatta dallo Stato, ma con i soldi dell’ex committente Atlantia?
«Dalla reazione di Di Maio, sembra quasi che Autostrade voglia ricostruire il ponte a modo suo. Come se l’alternativa fosse fra le regole del privato cattivo e quelle dello Stato buono. Ma un ponte non si può costruire in barba all’autorità pubblica, figurarsi in un caso come questo. Se il ponte lo rifà Autostrade, il progetto sarebbe comunque sottoposto a tutte le autorizzazioni e ai controlli del caso. Mi sembra che non a caso la posizione del sindaco di Genova e del Presidente della Regione sia un po’ diversa. Ma del resto loro sono interessati a risolvere il problema, non a farne oggetto di lotta politica».
La nazionalizzazione può essere una soluzione?
«Il governo ha deciso che la sua stella polare è che ci vuole più Stato. Come questo debba realizzarsi non è ancora chiaro. Dovrebbe entrare la Cdp in Autostrade? Con che quota? Con quali soldi? La rete di Autostrade finisce all’Anas? Gestire un’autostrada è un po’ più complicato che fare un post su Facebook. Mi sembra che si faccia fatica a comprenderlo».
I privati possono farsi carico della sicurezza?
«In un caso come quello di Genova, concessionario, amministrazione concedente e autorità amministrativa incaricata di vigilare sulla concessione sono tutte parti in causa. Detto questo, separare gestore e regolatore del servizio dovrebbe servire anche a garantire controlli più stringenti. Se il controllore non sa controllare il problema è grosso ma non lo si risolve con un nuovo monopolio pubblico. Il monopolio pubblico è per definizione il controllore di se stesso».
Le nazionalizzazioni rispuntano in periodi di crisi, come dopo il ’29, ma anche in periodi di crescita impetuosa, come in Italia a metà degli anni Sessanta. Possono funzionare?
«In Italia il mito della prima Iri o dell’Eni di Mattei sono duri a morire. La questione è: vogliamo che la fornitura di un certo bene o servizio obbedisca a criteri economici, o vogliamo che risponda a criteri politici? Nel primo caso, ci si affida a imprese che perseguono il proprio profitto. Nel secondo caso, ci si affida a realtà che possono essere controllate dal governo. Nel primo caso, la ricerca di risultati migliori da parte delle imprese può generare ogni tanto dei problemi per alcune categorie: per esempio per i lavoratori che sono spiazzati dalle nuove tecnologie».
E i problemi della gestione statale quali sono?
«L’intervento della politica tende a trasformare organizzazioni che dovrebbero fornire bene un certo servizio (dalla sanità alle banche) in organizzazioni che soddisfano le necessità del governante pro tempore. Per esempio garantire un certo livello di occupazione, o garantire che imprese amiche continuino a ricevere credito indipendentemente dalla loro performance. Diciamo che in un caso abbiamo problemi che ricordano un po’ il doversi togliere un dente senza anestesia, nell’altro caso l’illusione che a furia di anestesie non ci sia più bisogno di togliere il dente».
da Il Giornale, 29 agosto 2018