Non c’è più spazio per la terza via. Siamo d’accordo con quanto ha detto Massimo D’Alema, in una lunga intervista al Corriere della sera. Anche perché le vie non sono mai state che due. La via di chi pensa che le persone siano i migliori giudici di che cosa fare con il proprio futuro e con le proprie risorse. E quella di chi crede che altri possano scegliere, con migliori risultati, per loro.
Su un’altra cosa ancora ha ragione l’ex premier: superare le ambiguità non può che far bene al dibattito. Ma per superare le ambiguità, sarebbe utile non seminarne di nuove.
D’Alema, per esempio, vuole “riscoprire lo Stato” in un Paese in cui la spesa pubblica sfiora la metà del PIL. Auguri a lui e soprattutto a tutti noi.
Altro esempio, D’Alema s’unisce all’ampio coro che intona la litania che il nostro mercato del lavoro sarebbe fra i più flessibili e aperti, se non nel mondo almeno in Europa.
Nessuno nega che si siano compiuti dei progressi, negli ultimi vent’anni (anche quando primo ministro era proprio D’Alema): il nostro mercato del lavoro è meno rigido di quanto fosse nel 1994. La flessibilità in entrata è un dato acquisito. Ma la rigidità in uscita permane, e l’utilizzo di strumenti come la Cassa integrazione, che tutelano il posto di lavoro e non il lavoratore, certamente non aiuta quei processi di riallocazione dei fattori produttivi senza il quale un Paese non può uscire dalla crisi.
Secondo l’Indice delle Liberalizzazioni 2014 elaborato dal nostro Istituto, il mercato del lavoro è il secondo meno liberalizzato dell’Europa a 15, con un punteggio del 72%.
I dati sulla protezione del lavoro elaborati dall’Ocse (pure citata da D’Alema) non suggeriscono nulla di diverso: su 34 Stati membri dell’organizzazione, l’Italia ha la sesta legislazione più restrittiva sul licenziamento individuale e collettivo. E’ vero, come dice D’Alema, che sotto questo particolare aspetto il nostro paese ha, a detta dell’Ocse, una normativa leggermente più flessibile di Francia e Germania: ma molto meno di Svezia e Danimarca, oltre che del Regno Unito e della Spagna. Nell’Indice IBL, a Parigi è assegnato un punteggio del 77% e a Berlino invece dell’83%.
Per superare le ambiguità del discorso politico, è utile guardare anche al medio e non solo al breve periodo. Sotto questo profilo, un dato è forse ancor più rivelatore dello stesso livello di disoccupazione, che a ottobre ha raggiunto il nuovo record del 13,2%. Questo dato è quello relativo alla disoccupazione di lunga durata (che contribuisce all’elaborazione dell’Indice IBL): nel 2013 essa valeva il 57% del totale della disoccupazione, il valore più alto in tutta l’Unione europea dopo Slovacchia, Grecia, Croazia, Irlanda e Bulgaria. Questo fa la differenza tra realtà dove la disoccupazione e’ una condizione transitoria e altre dove e’ una condizione patologica: in quest’ultimo caso, quasi sempre la ragione va cercata proprio negli ostacoli normativi al buon funzionamento del mercato del lavoro.
Sarebbe auspicabile che la politica che desidera “riscoprire lo Stato” cominciasse col riscoprire i suoi limiti. Cominciando, ad esempio, dal fatto che non basta una presa di posizione, per quanto autorevole, di un uomo politico affinché le imprese riprendano a creare lavoro. Oppure dal fatto che le norme possono essere scritte con le migliori intenzioni, ma vanno poi misurate col metro dei loro esiti, e non delle ambizioni con cui sono state scritte. E’ proprio per questo, per lo iato che inevitabilmente si crea fra intenzioni ed effetti delle norme, che “la logica del posto fisso è finita”. Per usare le parole di Massimo D’Alema del 1999.