Il liberalismo eccentrico di Paolo Vita-Finzi

Arguto e ironico in «Le delusioni della libertà» inanellò ritratti di inconsci precursori del fascismo

22 Marzo 2023

Il Giornale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Secondo Enrico Serra, il grande storico della diplomazia, che ne fu amicissimo, Paolo Vita-Finzi (1899-1986) era «una persona eccezionale, dotata di un’acuta intelligenza, di un parlare preciso, sommesso e spesso arguto, sempre disponibile». Un altro suo amico, Alberto Indelicato, ultimo ambasciatore italiano a Berlino est, amava rievocare le passeggiate con Vita-Finzi trasformate in una gara di battute esilaranti che prendevano spunto da fatti storici o mitologici: l’uno evocava la signora Iscariota cui il marito Giuda, rimproverato di uscire sempre con gli amici, prometteva che la prossima sarebbe stata «l’ultima cena»; l’altro citava Cambronne alla ricerca di una persona cui doveva dire «una parola»; il primo ribatteva accennando a Muzio Scevola cui un amico chiedeva di «dargli una mano per un lavoretto»; e così di seguito.

L’ironia fu un tratto caratteristico della personalità di Vita-Finzi, ambasciatore eminente e scrittore di grande gusto. Non a caso dedicò l’ultimo suo saggio al tema Satira e diplomazia come, ancora non a caso, ventottenne, pubblicò quella Antologia apocrifa che lo rese famoso: raccolta, accresciuta nelle edizioni successive, di imitazioni o parodie della scrittura e dei generi letterari di autori italiani illustri con la sola eccezione di un brano autentico che il lettore è sfidato a scoprire.

In diplomazia Vita-Finzi entrò nel 1924, primo al concorso di quell’anno, cui partecipò forse in ricordo dello zio, Giacomo Malvano, un grande diplomatico che aveva ricoperto la carica di segretario generale degli Esteri per ben quattordici anni. Svolse incarichi in varie sedi estere, ma nel 1938 la sua carriera fu interrotta dalle leggi razziali. Trasferitosi in Argentina vi fondò la rivista Domani, dove scrissero gli esuli antifascisti e autori affermati come Ernesto Sabato e Jorge Luis Borges. La rivista piacque tanto a Sforza che la citò nel telegramma col quale, da ministro degli Esteri, lo richiamò in servizio nel dopoguerra. Reintegrato così nella carriera, Vita-Finzi riprese l’attività diplomatica in Gran Bretagna, Finlandia, Norvegia e, da ultimo, Ungheria senza abbandonare quella di giornalista e scrittore.

Nel 1961 pubblicò, grazie a Giuseppe Prezzolini, Le delusioni della libertà, ora riproposto dall’Istituto Bruno Leoni (pp. LXVI-226, euro 18) come primo titolo di una collana dedicata ai «Liberalismi eccentrici». Il libro contiene profili, in gran parte apparsi sul settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio, dedicati a intellettuali, francesi e italiani, che all’autore apparivano «inconsci precursori» del fascismo e, più in generale, dei regimi illiberali.

Questo Pantheon di spiriti inquieti si apre con Charles Péguy, Daniel Halévy, George Sorel, tutti provenienti dalle schiere dei difensori di Dreyfus. E prosegue con Émile Faguet e Robert de Jouvenel. Non quindi «intellettuali militanti» appartenenti o vicini al mondo reazionario dell’Action Française, come Charles Maurras o Léon Daudet o ancora Jacques Bainville ovvero a quello nazionalista e bonapartista di un Maurice Barrès, la cui polemica contro il parlamentarismo e la democrazia sarebbe stata scontata, ma intellettuali di estrazione liberale, conservatrice o addirittura socialista e radicale. Si trattava, insomma, di pensatori amanti della libertà, come, per esempio, fra gli italiani, Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, Benedetto Croce e Giuseppe Rensi o, ancora, scrittori come Giuseppe Prezzolini.

Che Le delusioni della libertà fosse importante e iconoclasta apparve subito chiaro. Palmiro Togliatti gli dedicò una nota su Rinascita e Delio Cantimori sottolineò come il libro fosse «meritevole di attenzione» per aver rivelato la diffusione di idee antidemocratiche, antiliberali, antisocialiste, antiparlamentari nella cultura politica, letteraria e filosofica del primo Novecento, da parte anche di intellettuali provenienti dalla sinistra, a cominciare da sindacalisti rivoluzionari e anarchici.

Malgrado lo stile leggero e il taglio brillante e scanzonato, il libro era davvero rivoluzionario dal punto di vista interpretativo. A quell’epoca, gli studi sul fascismo non avevano ancora un approccio scientifico, erano condizionati dalla passione politica e dal paradigma antifascista. Le interpretazioni correnti riconducevano il fascismo a una «malattia morale» o all’esito di tare secolari o, infine, a una reazione antiproletaria della società capitalistica. È, quindi, comprensibile che potessero lasciare interdetti quelle pagine nelle quali Vita-Finzi ricordava il Croce «antidemocratico» ovvero quelle dedicate alle uscite incendiarie di focosi sindacalisti rivoluzionari nei quali si potevano già intravvedere delle «crisalidi di gerarchi». Non era, insomma, ancora apparso il primo volume della biografia mussoliniana di De Felice che svelava il retroterra culturale del Mussolini rivoluzionario e il peso che sulla sua formazione avevano avuto il sorelismo, l’élitismo paretiano e l’ambiente vociano.

Le delusioni della libertà, insomma, smentiva molti tabù della letteratura storiografica sul fascismo: l’idea, per esempio, che la figura di Mussolini potesse essere spiegata ricorrendo alla categoria del «tradimento» delle origini socialiste e rivoluzionarie o, ancora, la convinzione di intellettuali come Norberto Bobbio che il fascismo, violenza pura, non potesse avere una cultura e fosse anzi espressione di «anticultura», un movimento «contro la cultura» e non già, come avrebbe in seguito sostenuto opponendosi a questa tesi Augusto Del Noce, un «errore della cultura».

Sotto questo profilo Le delusioni della libertà fu un libro anticipatore della svolta storiografica degli studi sul fascismo degli anni successivi. Ma, al di là di ciò, esso rimane – con il suo sottile e ironico scetticismo e con quel suo realismo politico che invita a diffidare dei falsi profeti e dei sognatori di mondi migliori uno dei grandi testi del liberalismo italiano contemporaneo.

Vita-Finzi fu un liberale puro. Crebbe e si formò nella Torino di Piero Gobetti senza però identificarvisi tant’è che questi lo inserì fra gli «amici dissidenti». Del resto il giudizio che egli avrebbe dato su Gobetti è inequivocabile: «per quanto sia elastica la parola “liberale” non riuscivo a persuadermi che la rivoluzione russa fosse un atto di liberalismo».

Il suo liberalismo non aveva nulla da spartire con le pulsioni rivoluzionarie e gli entusiasmi giacobini e barricaderi di un Gobetti intriso di moralismo giansenista. Era fatto di sobrietà e amore per le tradizioni: un liberalismo che corrispondeva a un modo ordinato d’intendere la vita e che fu messo a dura prova durante gli anni del regime non tanto per le scelte politiche quanto piuttosto per le minute «riforme del costume» dall’uso obbligatorio del Voi alla abolizione della stretta di mano e alla sostituzione con il saluto romano che «sembravano fatte apposta per dar noia al prossimo» e intaccavano la normalità dell’esistenza col solo scopo di «infastidire di continuo, non lasciare un momento di respiro». Un liberalismo che vale la pena di riscoprire. E in difesa del quale è stato scritto Le delusioni della libertà.

da Il Giornale, 22 marzo 2023

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