6 Novembre 2017
Il Sole 24 Ore
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Se nel 1998 aveste scritto «cars» su Lycos, uno dei motori di ricerca all’epoca più popolari, avreste ottenuto in risposta pagine e pagine di indirizzi di siti porno. I gestori di quei siti vi inserivano infatti, magari scritte piccole piccole o scritte in bianco su sfondo bianco, molti termini fra i più popolari. «L’algoritmo di Lycos leggeva numerose menzioni di cars».
È «sistema che oggi appare semplicistico al punto da essere ridicolo», ma di tratta egualmente di un servizio straordinariamente complesso, della ricerca su milioni di pagine di contenuti. Solo che noi siamo abituati tutti a Google, che mai produrrebbe un risultato simile. Perché? Perché Larry Page e Sergei Brin avevano compreso che i link su Internet sono un poco come le citazioni accademiche: «la frequenza con cui un paper viene citato è una misura della sua credibilità, e se viene citato da paper che sono a loro volta frequentemente citati, ciò gli conferisce ancora più credibilità». È questa la novità dell’algoritmo di Google. Per quante volte si possa nascondere la parola car su un suto porno, se non ce n’è menzione in altre pagine dedicate alle automobili è improbabile che figurerà in prima fila, in una ricerca sul tema.
L’algoritmo di Google è una delle cinquanta «cose che hanno fatto l’economia moderna» raccontate da Tim Harford nel suo ultimo libro. Harford, rubricista del Financial Times e autore, nel 2007, di The Undercovered Economist (in Italia tradotto da BUR), è uno dei più popolari divulgatori d’economia dei nostri tempi. Scrive con garbo, contempla l’una e l’altra faccia di qualsiasi moneta, ragiona con pacatezza.
Le cinquanta invenzioni alle quali ha dedicato questo libro non sono necessariamente le novità più dirompenti di sempre, ma sono tutte storie interessanti, storie che testimoniano il potere della creatività e quello, assai maggiore, delle circostanze. Dall’aratro al radar, dall’orologio alle lamette gillette, dalla carta all’assicurazione.
Sono tutti beni e servizi di cui usufruiamo continuamente, senza saperne molto. «Il sistema economico globale che ci porta prodotti e servizi è vasto e incredibilmente complesso. Collega quasi ognuno dei 7 miliardi e mezzo di abitanti del nostro pianeta (…) Nessuno lo guida. In effetti, nessun individuo potrebbe mai ambire a capire più di una frazione di quel che succede».
Il bello di questo mondo che abitiamo è che non serve comprenderlo, per approfittarne. Mettiamo in moto la nostra automobile senza avere più che una vaga cognizione di come funzioni la Blockchain. L’economia moderna è fatta così. Una sempre più capillare divisione del lavoro ci consente di del talento e delle abilità degli altri, e questo “altri” include ormai milioni di persone.
Ma sarebbe bello conoscere meglio la nostra civiltà industriale, padroneggiare la storia perlomeno delle sue pietre miliari, proprio per questo imparare ad apprezzarne la complessità, smettere di considerare il forno e la lavatrice banali elementi d’arredo. Questo libro nasce immaginando un lettore che avverte tale bisogno.
Brillante quanto cauto, Harford spiega che «i mercati tendono ad assegnare le risorse in modo eccellente, ma il risultato non è garantito» e pertanto «talvolta può accadere che vi sia bisogno della mano visibile dello Stato». E alcune delle “cinquanta cose che hanno fatto l’economia moderna” riguardano la “mano visibile” in azione. Per esempio lo Stato sociale del quale non è facile dire se «acceleri la crescita o la soffochi»:«si tratta di sistemi composti da innumerevoli componenti e ciascuna di esse può influire in molti modi sulla crescita».
Oppure prova a spiegarci, come altri hanno già fatto, che dietro l’iPhone non ci sarebbe Steve Jobs ma lo Zio Sam: che, cioè, le tecnologie che “fanno” gli smartphone sono debitrici di «secchiate di soldi riversate sui problemi da parte di enti pubblici, solitamente dalle forze armate americane». Anche questa è una storia che si legge con gusto, se è scritta con brio, ma è non per caso la parte più claudicante di tutto il libro.
Quello di Harford non è un saggio sulle fonti della creatività capitalistica, non è una ricerca attorno al ruolo che ricerca e sviluppo giocano in un’economia della conoscenza. È qualcosa di più prezioso. È un racconto che mira a suscitare stupore innanzi a tanti oggetti che scivolano sotto gli occhi, quasi anonimi, ogni giorno. È un invito a meravigliarsi della complessità di tutto ciò che è soltanto apparentemente comune. L’autore sa bene quanto sia difficile svolgere il gomitolo delle cause, capire quale decisione ha effettivamente prodotto un certo esito, distinguere responsabilità e meriti. Matt Ridley usa una formula efficace: «le idee fanno sesso». Non soltanto vengono «selezionate le più adatte» ma i caratteri più interessanti di esperienze e ricerche che di per sé sarebbero fallite, riemergono nei loro “figli”, portandosi dietro le lezioni del passato. C’è anche un po’ di Lycos in Google.
Allora il semplicismo per cui dovremmo una certa innovazione “allo Stato”, indipendentemente dall’intento di chi l’ha progettata, dalle caratteristiche istituzionali dell’organizzazione che l’ha finanziata, dalle trasformazioni che l’hanno coinvolta prima di diventare una componente di un prodotto rivolto al vasto pubblico, come l’iPhone, stride nel ragionare di Harford. Il quale è invece ben consapevole di come scoperte e invenzioni fioriscano su un selciato di osservazioni casuali, ricerche accurate e colpi di fortuna. È la necessità di calcolare la longitudine che porta a sviluppare strumenti di precisione per misurare il tempo. È a sua volta è grazie all’orologio atomico se abbiamo il GPS: basato sulla triangolazione di segnali di satelliti che ci possono dire dove siamo, ma che funziona soltanto «se quei satelliti concordano sull’ora».
Il mondo disegnato da queste «cinquanta cose» è nato, Harford lo sa bene, con una di esse: l’aratro. «È stato l’aratro che ha dato il “calcio d’inizio” alla civiltà». Dodicimila anni fa gli esseri umani erano nomadi, cacciatori e raccoglitori ma, all’uscire da una piccola glacitazione, cominciarono a trovare che «vagare sul territorio alla ricerca di cibo era meno proficuo che dare un aiutino alle piante che crescevano nei loro paraggi».«L’agricoltura si è diffusa tanto rapidamente» perché «i surplus di cibo hanno permesso di mantenere in vita popolazioni più numerose e società in cui esistevano specialisti». In breve «diventa possibile che un quinto della popolazione produca abbastanza da poter sfamare tutti».
Per i cultori della nostalgia, fu l’inizio della fine. Cominciò allora la corruzione dell’animo umano e con essa le diseguaglianze.
Harford ha il pregio di ricordarci, assieme all’ingegnosità, anche la bellezza di una civiltà sorta e cresciuta grazie a una crescente specializzazione. Dall’aratro all’iPhone, non è solo stato un lungo viaggio: è stato anche un bel viaggio
Dalla Domenica de Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2017