La prosa delle banche centrali è la stessa a tutte le latitudini. Asciutta, priva di emozioni. Apparentemente solo descrittiva. Densa di significati anche solo indirettamente: per quanto viene non detto o per quanto viene suggerito senza per questo dover essere scritto. L’ultimo Bollettino Economico della Banca Centrale Europea ne è un ottimo esempio.
In una appendice apparentemente innocua (“Progressi e possibile impatto delle riforme strutturali nell’area dell’euro”) la BCE fa, ad esempio, il punto sulla attività di riforma dei membri dell’Eurozona. Dell’Irlanda si dice che “la ripresa è sostenuta da un ampio ventaglio di riforme strutturali”. Della Spagna si rileva la positiva performance conseguente alla riforma del mercato del lavoro attuata nel 2012. Del Portogallo si sottolinea che le riforme attuate fra il 2009 ed il 2013 hanno già fatto aumentare il livello della produttività e del Pil potenziale. Della Grecia si ricorda che – in anni indubbiamente molto difficili – sono state “attuate diverse riforme strutturali”. Arrivati all’Italia il tono cambia: “l’Italia necessita di ulteriori riforme per accrescere il prodotto potenziale”. Difficile non leggere in questo repentino mutamento di tono la preoccupazione delle istituzioni europee per un processo riformatore fatto più di annunci e linee-guida che di concreti documenti legislativi e atti di governo (con l’eccezione del Jobs Act: ottima cosa, ma tutt’altro che decisiva per tirar fuori il paese dalle secche in cui si trova). Difficile non cogliere nella scelta degli estensori del Bollettino l’inquietudine dei nostri partner europei ai quali non sempre appaiono sufficienti le rassicurazioni verbali del ministro dell’Economia sulla sostenibilità del nostro debito.
E allora si capisce meglio che a noi, più che ad altri, è dedicato il messaggio di fondo del Bollettino: i paesi dell’eurozona hanno davanti a sé 18 mesi circa non solo per fare le riforme ma anche e soprattutto per vederle “entrare in circolo” e tradursi in un più elevato livello del prodotto potenziale. È un lasso di tempo brevissimo soprattutto per chi, come l’Italia, ha passato gli ultimi anni a trastullarsi con le riforme più fantasiose evitando peraltro di fare passi anche minimi nella direzione più importante: la revisione della spesa pubblica (e attraverso di essa la riforma della pubblica amministrazione per la quale si è invece scelto di riproporre l’approccio già seguito senza risultati nel corso dell’ultimo ventennio).
Intanto, l’inflazione (nella versione “armonizzata”) ormai da qualche mese eccede il corrispondente dato medio dell’Eurozona e la divergenza sembra accentuarsi in questo primo scorcio d’anno. Nulla di allarmante, per il momento, ma nel giro di qualche mese capiremo se era nel giusto il ministero dell’Economia italiano quando affermava – in polemica con la Commissione europea – che il prodotto potenziale italiano non era stato intaccato dalla crisi nel suo livello potenziale. Se così non fosse il tempo per l’Italia si farebbe ancora più stretto. Forse troppo.