13 Gennaio 2014
IL – Intelligence in Lifestyle
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Stavamo meglio quando stavamo peggio? La saggezza popolare, se fosse chiamata in tribunale a portare delle prove a suo favore, dovrebbe soccombere di fronte alla impressionante mole di evidenza che supporta la tesi contraria. Che è anche quella ovvia. Si stava peggio, quando si stava peggio. La narrazione della storia economica, in questi ultimi anni, si è focalizzata sul periodo della crisi, con la sua distruzione di ricchezza e di prospettive (soprattutto nel mondo occidentale).
In questo modo, però, si è persa di vista la big picture: la vicenda umana dalla Rivoluzione industriale in poi è stata una incredibile cavalcata verso l’accumulazione di capitale (finanziario, tecnologico, sociale e umano, non necessariamente in quest’ordine). Accumulazione che non è andata a favore di una ristretta élite, mentre la grande massa si arrabattava nella miseria. Se dovessimo descrivere due secoli e mezzo con una battuta diremmo, rubando le parole a David Friedman, che il capitalismo ha reso i ricchi più ricchi, e i poveri più ricchi.
La questione va guardata da tre prospettive differenti: la dinamica del Pil pro capite, della povertà e della disuguaglianza. La prima ci dice se e quanta ricchezza sia stata creata, tanto a livello globale quanto a livello di singolo Paese. La seconda risponde alla domanda se la ricchezza si sia vieppiù concentrata o se, invece, lo sviluppo economico sia andato a beneficio anche delle fasce più deboli della società. Infine, è importante interrogarsi sul divario tra il vertice e la base della piramide sociale, per intuire quali movimenti sociali e politici possano derivarne. Dire che reddito e qualità della vita siano migliorati, rispetto ai secoli andati, è ormai comune buonsenso. Lo storico Angus Maddison ha mostrato che il Pil pro capite medio globale è esploso da 467 “dollari internazionali del 1990” (un’ipotetica valuta costruita in modo tale da avere lo stesso potere d’acquisto di un dollaro nel 1990) a 7.614 nel 2008. Un modo suggestivo di esprimere questo fenomeno è attraverso i consumi di energia. Quale sia l’uovo e quale sia la gallina è complicato dirlo: diventando più ricchi, aumenta la nostra domanda di energia perché cresce il ventaglio di beni e servizi che vogliamo consumare. Contemporaneamente, lo sviluppo economico è reso possibile dal fatto che, grazie al progresso tecnologico, disponiamo di forme di energia sempre più flessibili nell’utilizzo, affidabili ed economiche. Sia come sia, l’energia che consumiamo è diretta a delegare alle macchine fatica che, altrimenti, dovrebbe essere svolta da esseri umani: dal lavoro nei campi alla produzione di manufatti o servizi. Considerata la quantità di lavoro che mediamente un essere umano può svolgere a mani nude, è come se, alla metà del secolo scorso, ciascun individuo sulla faccia della Terra potesse avvalersi del lavoro di 38 persone. All’inizio del nuovo millennio, ciascuno di noi aveva l’equivalente di cento “dipendenti”.
Meno scontato è rilevare che, nonostante la crisi economica, il pianeta ha continuato a girare pure negli anni più recenti. Paesi come l’Italia hanno perso ricchezza, ma l’Italia non è il mondo né il suo ombelico. E, se è giusto interrogarci sui problemi di casa nostra, non possiamo ignorare che, mediamente, i redditi degli individui e la loro capacità di soddisfare i propri bisogni hanno continuato a crescere durante l’ultimo decennio. Il Pil medio globale pro capite era, nel 2001, pari a circa 6.500 dollari: in termini reali, nel 2011 aveva raggiunto i 7.625 dollari (+17 per cento al netto dell’inflazione). Tale movimento verso una ricchezza sempre maggiore – si perdoni l’apparente gioco di parole – è anche e soprattutto una fuga dalla povertà. A dispetto del significativo aumento della popolazione mondiale (2,5 miliardi nel 1950, 6 nel 2000, più di 7 oggi) il numero di coloro che vivono sotto la soglia di povertà (fissata convenzionalmente in corrispondenza di un reddito pari a 1,25 dollari al giorno) è andata calando con velocità e regolarità impressionanti. Tra il 1990 e il 2010 si è pressoché dimezzata, calando da oltre il 40 per cento a poco più del 20 per cento, e continua a decrescere. Proiettando inerzialmente le dinamiche in essere, si può immaginare che la povertà sia definitivamente sconfitta – scendendo attorno al 5 per cento – da qui al 2030 (da qui una recente copertina dell’Economist: “Towards the end of poverty”). Per tenere conto delle grandi incertezze che ovviamente circondano questo tipo di previsioni, la Brookings Institution ha costruito diversi scenari, più o meno ottimisti. Il risultato è, comunque, incoraggiante: nella peggiore delle ipotesi, il tasso di povertà scenderà comunque attorno al 15 per cento. Se le cose andranno molto bene, potrebbe addirittura calare nei dintorni dello zero.
Un aspetto importante – che emerge dalla lettura combinata dei dati sulla crescita economica e di quelli sull’arretramento della povertà – è che lo sviluppo delle diverse regioni del globo, seppure molto diseguale e guidato spesso da questioni specifiche delle varie nazioni, sembra confermare le ipotesi di convergenza. Vale a dire, molti Paesi poveri sono cresciuti a un ritmo più rapido rispetto alle aree più ricche, determinando un accorciamento della distanza, che pure rimane assai pronunciata. Purtroppo, altre regioni non hanno saputo dotarsi delle istituzioni necessarie a stimolare la crescita, ampliando così il gap che le divide sia dai Paesi più benestanti, sia dalla media globale. Per esempio, come evidenzia il World Wealth Report di Credit Suisse, tra il 2000 e il 2013 la ricchezza delle famiglie nel mondo è grossomodo raddoppiata. Se, però, è cresciuta dell’88 per cento in Nord America e di circa il 130 per cento in Europa (grazie soprattutto allo sviluppo di gran parte dell’ex Unione Sovietica), l’aumento è stato del 211 per cento in India e del 376 per cento in Cina. In America Latina e Africa il boom è stato meno clamoroso, ma comunque assai rilevante: circa il 160 per cento e poco meno del 150, rispettivamente. Lo stesso vale se guardiamo al periodo 2008-2013, coincidente con la crisi economica: a fronte di una stagnazione dell’Europa e dell’Asia-Pacifico, il tasso di crescita è stato prossimo al 50 per cento nelle Americhe, di poco inferiore in India e superiore al 60 in Cina. L’Africa, purtroppo, è rimasta sostanzialmente ferma.
A fronte di questa dinamica, molti hanno posto il problema, concreto, della crescente disuguaglianza. Quanto c’è di vero, e quanto di leggenda metropolitana, in ciò? Molto dipende da come la disuguaglianza viene misurata, e ancor più dall’interpretazione che se ne dà. Il coefficiente di Gini, una comune misura della disuguaglianza, è andato crescendo in misura significativa, se ci concentriamo sul valore medio globale. Questo – come emerge da uno studio di Branko Milanovic per la Banca Mondiale – deriva principalmente da una maggiore disuguaglianza tra i Paesi. Al contrario, all’interno dei singoli Paesi – con alcune ragguardevoli eccezioni, in particolare gli Stati Uniti – la disuguaglianza è andata riducendosi. Un paper degli economisti Maxim Pinkovskiy e Xavier Sala-i-Martin ha trovato tuttavia che non solo «il tasso di povertà globale è crollato dell’80 per cento tra il 1970 e il 2006»; altrettanto importante è che «varie misure della disuguaglianza globale sono scese sostanzialmente e le misure del benessere globale sono cresciute del 128-145 per cento».
Queste affermazioni apparentemente contraddittorie si conciliano alla luce di due ulteriori considerazoni. La prima, come anticipato, è che, pur essendosi allargata la distanza tra i Paesi, il divario sociale interno alle nazioni si è gradualmente accorciato (almeno fino alla crisi economica globale, e con non triviali eccezioni). La seconda è che, tipicamente, i Paesi più ricchi sono anche quelli dove le disuguaglianze sono inferiori. Nel 2010, per esempio, i tre Paesi con una distribuzione più eguale dei redditi erano Danimarca, Svezia e Norvegia; i tre Paesi più diseguali erano Namibia, Sudafrica e Botswana. Il Pil pro capite nei primi tre Paesi era superiore ai 50mila dollari; nel secondo gruppo, invece, era assai più basso (circa 7.000 dollari in Sudafrica e Botswana, attorno ai 6.000 in Namibia). Correggendo questi valori a parità di potere d’acquisto – per tenere conto che un dollaro a Windhoek, Namibia, vale di più dello stesso dollaro a Oslo – la differenza si accorcia ma rimane considerevole, nell’ordine di 1:3.
Che le cose stiano andando – mediamente – meglio lo si evince anche da altre variabili indirette, che aiutano però a qualificare il maggior benessere materiale di cui l’umanità, nel suo complesso, sembra godere. L’aspettativa di vita alla nascita, a livello medio globale, è cresciuta da 68,8 anni nel 2004 a 70,5 nel 2011. Nel lungo termine, questo risultato è stato possibile grazie principalmente a due grandi battaglie che il genere umano, se non ha vinto, sta vincendo. La prima è quella contro la mortalità infantile: nel 1900, la mortalità infantile era inferiore al 10 per cento in un solo Paese al mondo. Cent’anni dopo, soltanto 19 nazioni si collocavano al di sopra di tale soglia. L’altra battaglia è quella contro la denutrizione: il numero di persone che soffrono la fame, in valore assoluto, è calato da circa 1 miliardo nel 1990 a 842 milioni oggi. Resta una cifra impressionante ma, se si tiene conto della contemporanea crescita demografica, è difficile non rendersi conto degli enormi progressi che sono stati compiuti. L’apporto calorico medio quotidiano, sempre a livello planetario, che era di circa 2.803 kcal sul finire degli anni Novanta, si stima salirà fino a quasi 3.000 kcal nel 2015.
Cosa ci dicono tutti questi dati? Certamente non che le cose vadano bene in senso assoluto. Un numero intollerabilmente alto di persone soffre la fame, vive in Paesi privi dei più basilari servizi, conduce un’esistenza penosa che, nel nostro piccolo angolo di mondo, consideriamo neppure come il ricordo di un lontano passato, ma come la testimonianza di una profonda ingiustizia. Eppure, il progresso, che ha cambiato in misura tanto vasta la nostra vita, ha reso possibile anche un miglioramento costante delle vite degli altri. Dovendo scegliere, chiunque di noi preferirebbe nascere nel 2013 anziché nel 1913: perché la probabilità di vivere anziché sopravvivere, sopravvivere anziché morire, trovare la scodella piena anziché vuota, avere l’opportunità di un’occupazione magari gratificante, godere della prospettiva di un miglioramento di status sociale, eccetera è infinitamente più elevata oggi di un secolo fa. Ma sarebbe conveniente pure vedere la luce nel 2013 piuttosto che nel 2003, e questo forse non è ovvio agli italiani che si trovano all’epicentro della crisi.
Se ci fossimo concentrati su variabili di natura diversa, avremmo trovato indicazioni coerenti con questo. In media, la qualità dell’ambiente è andata migliorando. La quantità di persone con accesso ai servizi che oggi consideriamo essenziali e che alcuni si concedono il lusso di chiamare “diritti” – l’energia, il telefono, persino internet – è cresciuta enormemente. La qualità di questi servizi è migliorata di anno in anno.
Il progresso tecnologico è stato una forza fondamentale dietro tale avanzamento della condizione umana, ma non è l’unica e, forse, non ne è neanche il motore primo. È difficile, infatti, concepire un tasso di innovazione tecnologica simile a quello che abbiamo osservato negli ultimi cent’anni, prescindendo dal sistema sociale che in quello stesso periodo si è imposto. E ciò soprattutto qualora si prenda atto del fatto che i Paesi che si sono sviluppati di più, e più rapidamente, quelli che hanno visto il reddito crescere in modo più sostenuto e il numero o la percentuale di poveri e affamati diminuire, quelli nei quali si è accorciata la distanza che separa i privilegiati dai meno fortunati, e che infine hanno saputo dotarsi di un ascensore sociale ragionevolmente efficace, ebbene, tutti questi Paesi sono quelli che sono stati protagonisti dell’espansione del commercio mondiale in questi decenni. In breve, la globalizzazione ci ha resi più longevi, più ricchi e più uguali, pur tra mille difficoltà e un milione di contraddizioni. Grazie a una rete di scambi sempre più vasta, la vita di tutti noi – tranne di quelli che ne sono rimasti esclusi – è, in media, meno solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve.
Da IL, 20 dicembre 2013
Twitter: @CarloStagnaro