Il multiculturalismo secondo Vargas Llosa, anti individuo e anti storico

Riconoscere che tutte le culture siano ugualmente degne di esistere così come sono vuol dir avere di loro "un'idea statica smentita dalla storia"

4 Novembre 2014

Il Foglio

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Mario Vargas Llosa è nato in Perù. Un paese di indios, prima che di ispani. Pensando alle culture aborigene del suo paese, il narratore de “El hablador” (1987), dal belvedere di una Firenze afosa, si chiede quale illusione sia quella di preservare le tribù dell’Amazzonia tali come erano e vivevano. Non è solo una questione di fattibilità: chi più lentamente chi più rapidamente, riconosce il narratore, tutte si stanno contaminando di influenze occidentali e meticce. Ma soprattutto, “era desiderabile quella chimerica preservazione? A cosa giovava per quelle tribù continuare a vivere come volevano gli antropologi puristi?”. Minacciati ancora di morte da un semplice raffreddore, “il loro primitivismo li rendeva vittime delle peggiori spoliazioni e crudeltà”. Questi pensieri di uno dei due protagonisti del “Hablador”, fatti mentre viene catturato dal magnetismo dei palazzi e delle pietre di una città che è stata culla della civiltà occidentale, ad anni e chilometri di distanza da una sua spedizione in Amazzonia, svelano le idee dello scrittore sulla convivenza tra culture, idee coraggiose rispetto al multiculturalismo imperante.

Si può essere, da liberali, severi critici del multiculturalismo? Quale estimatore di Karl Popper, Vargas Llosa riconosce che l’immagine della società aperta è stata una tappa fondamentale del pensiero democratico e liberale contemporaneo nata dalle spoglie dei nefasti tentativi di costruire le società chiuse nel secolo scorso. Ma ammettere l’essenzialità della libertà di espressione e della tolleranza non è come dire, secondo lo scrittore peruviano, che tutte le culture sono uguali. “Tolleranti con i tolleranti” è un principio classico, anche se non pienamente condiviso, del liberalismo (vedi Chandran Kukathas, “Arcipelago liberale”, Liberilibri).

Nel fanatismo, anche Mario Vargas Llosa come Popper e Voltaire vede una minaccia alla libertà individuale e alla stessa cultura democratico-liberale che rende le nostre società occidentali degne di essere preservate. Una minaccia che ha a che vedere con la superiorità morale accordata all’individuo anziché alla collettività e che ad esempio incombe, secondo lo scrittore, sulla condizione delle donne nella religione musulmana. A chi vorrebbe obiettare che anche le nostre nonne andavano in chiesa col velo e vestivano spesse calze nere sotto lunghe gonne, Vargas Llosa replicherebbe che proprio questo è il punto. Riconoscere che tutte le culture siano ugualmente degne di esistere così come sono vuol dir avere di loro “un’idea statica smentita dalla storia”. Degnarle di identico valore impedisce loro, isolando e ghettizzando le meno aperte, di evolvere, progredire attraverso il confronto e l’apertura a modi di vivere diversi, “sperimentare, nel caso proprio della religione musulmana, lo stesso processo di secolarizzazione che ha permesso alla chiesa cattolica di adeguarsi alla cultura democratica” (el País, 7 ottobre 2007). Nel buonismo dei sentimenti, nel timore di “apparire etnocentrici e portatori di pregiudizi”, si impedisce alla storia di fare il suo corso, si costruiscono nicchie culturali più o meno grandi e rese intoccabili dalla sacralità di concetti rigidi come comunitarismo e diritti collettivi. Non diversamente da altre forme di costruzione sociale come il socialismo o il nazionalismo, il comunitarismo riflette un ideale di progresso pilotato, irreale e romantico nella sua utopia arcaica e antistorica, come conclude il narratore dell'”Hablador”. Se la civiltà occidentale ha un dovere, per Vargas Llosa, è quello di evitare che il comunitarismo isoli e impedisca lo sviluppo di comunità illiberali o ancorate a mentalità magico-religiose, perpetuando il paternalistico mito europeo del buon selvaggio.

Da Il Foglio, 4 novembre 2014
Twitter: @seresileoni

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