6 Aprile 2017
Il Foglio
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Negli scorsi anni qualcuno rimase sorpreso quando un intellettuale di lunga militanza marxista come Pietro Barcellona invitò a più riprese, nelle aule della sua università messinese, il principale esponente della Nouvelle Droite francese, Alain de Benoist. Quello stupore, però, non era del tutto legittimo, se si considera che da sempre una certa destra e una certa sinistra appaiono collegate nel modo in cui viene rigettata la libertà individuale e il suo rapporto con la proprietà, con la tradizione del rule of law, con le logiche di un mercato non politicamente governato. Una conferma di tutto ciò viene da un volume di Jean-Claude Michéa (Notre ennemi, le capital, uscito poche settimane fa per le edizioni Flammarion) che sta suscitando molte reazioni sui maggiori quotidiani francesi. Dopo le prediche in favore della decrescita di Serge Latouche e quelle sull’eguaglianza di Thomas Picketty, dalla Francia ci viene quindi l’invito a convogliare tutti i ceti popolari contro il comune nemico (il capitale), superando ogni distinzione tra progressisti e conservatori.
Va subito detto, però, che si tratta di una lezione assai strampalata: fin dal titolo. Sostenere che il capitale è un nemico significa considerare intrinsecamente negativa la ricchezza e, in particolare, quel tipo di ricchezza non consumata immediatamente, poiché il suo impiego è differito al fine di realizzare in un secondo momento progetti di ampio respiro. Quale che sia la struttura giuridica ed economica che si vuole adottare (collettivista oppure no), una società che non voglia rinunciare alle risorse e neppure voglia vivere solo nell’istante, deve allora fare i conti con il capitale e valorizzarne la funzione.
Ma quello di Miché non è uno studio teorico sul capitale, che si confronti con Ricardo, Böhm-Bawerk, Lachmann o altri. Non è neppure a dispetto del carattere evocativo del titolo un testo marxista, dato che del filosofo di Treviri viene fatto un uso assai disinvolto. A epigrafe sono collocati una frase della Thatcher (il “male”) e due passi tratti da Rosa Luxemburg e dal Manifesto dei proscritti della Comune rivoluzionaria di Parigi. L’operazione compiuta, però, consiste nel leggere il socialismo in termini reazionari: quale rigetto della modernità basata sugli scambi, sull’innovazione, sulla finanza. L’idea di Michéa è che il passato era contadino e umanista, mentre la modernità sarebbe borghese e tecnocratica. E naturalmente il capitale rappresenterebbe il trionfo dei pochi che dominano i molti.
In verità, il testo di Michéa interpreta alla perfezione l’antiliberalismo di destra e sinistra che porta a esaltare qualunque filippica contro il profitto e a invocare ogni forma di nazionalismo economico e regolazione autoritaria.
L’idea di fondo è che i consumi ci rubino l’anima. Il tutto all’insegna di un “pasolinismo” perfino più povero di quello, già non esaltante, che rinveniamo negli scritti corsari pubblicati sul Corriere della Sera, ormai più di quarant’anni fa, per celebrare la nostalgia di quelle lucciole che sempre meno incontriamo nelle nostre notti estive. Pasolini era un poeta o ambiva a esserlo, ma Michéa vuole invece aiutarci a interpretare il mondo e a trasformarlo.
Peccato che i suoi scritti siano una lunga serie di non sequitur. La logica liberale, secondo la quale i diritti vanno protetti e poi ognuno deve perseguire i propri fini, per Michéa possiede (ovviamente!) una sua volontà d’azione. Anzi, il capitale è esso stesso un soggetto: che agisce, determina, domina la vita di tutti noi. Nella sua incomprensione degli ordini policentrici ed evolutivi, egli arriva perfino a confrontare il libero mercato e il gioco di società Monopoly, persuaso che quest’ultimo possa aiutarci a capire cos’è un’economia concorrenziale, innervata dall’iniziativa imprenditoriale e dalle scelte dei consumatori.
Questo Notre ennemi, le capital vorrebbe essere una filippica contro il pensiero liberale. Peccato che Michéa non conosca questa tradizione di pensiero e d’altro canto la messa sotto accusa della libertà è solo funzionale a un’operazione ben precisa: alla costruzione di un’ipotetica alleanza tra anticapitalismo socialista e anticapitalismo conservatore. Perché ancor più che avversare i difensori del mercato, egli detesta quanti a sinistra si limitano a tassare e regolamentare, senza distruggerlo del tutto, quel poco che resta dell’economia libera.
A giudizio di Michéa i sistemi politici bipolari dell’Occidente vedrebbero sostituirsi, al governo, l’ala destra e l’ala sinistra del liberalismo egemone. Non è chiaro a quali paesi egli si riferisca, ma sicuramente egli pensa in continuazione alla sua Francia: e qui è davvero divertente come l’ideologia possa accecare quanti non si rendono conto che se c’è un paese refrattario al mercato è proprio la Francia, dominata da varie forme di statalismo e dirigismo.
Non fa nulla: lo scrittore francese sogna infatti un popolo che si riunisca superando antichi steccati nella comune lotta alla società liberale. Nihil sub sole novum. Questo stesso progetto non era forse già al cuore dei populismi storici del Novecento (dal fascismo al nazismo, al peronismo), che hanno sempre mescolato tradizione e socialismo?
Da Il Foglio, 6 aprile 2017