Il pericoloso e grave silenzio al Lingotto sulla legge elettorale del futuro

Se alle parole non fa seguire iniziativa politica è come dicesse "vorrei ma non posso"

15 Marzo 2017

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Al direttore
I convegni politici, soprattutto quando vengono caricati di grandi aspettative, hanno un tema dominante: non fa eccezione Lingotto ’17, la tre giorni organizzata da Renzi per preparare la mozione da presentare al Congresso del Pd. Con una singolarità: che mentre il tema dominante di solito lo è per la sua presenza, questa volta lo è stato per la sua assenza. Dominante, dopo la bocciatura del 4 dicembre, è il tema del sistema elettorale ma, che io ricordi (e sono stato quasi continuamente presente), non è stato neppure nominato fin quasi alla fine. Solo domenica, verso la chiusura, è stato prima evocato da Piero Fassino (la vocazione maggioritaria indispensabile per essere polo aggregante di un campo più grande), e poi nominato da Matteo Renzi nel discorso conclusivo. Il quale avvertito, bontà sua, che “non sappiamo quale legge verrà fuori”, e ammesso che “dopo il 4 dicembre quel disegno è più debole” ha affermato che è “la legge elettorale è un punto irrinunciabile”. Che irrinunciabile sia il suo essere maggioritaria, è tanto noto da lasciarlo sottinteso?

Questa assenza ha marcato tutto il convegno. Forse il clima, anche se mi pare esagerato parlare di “mestizia da proporzionale” (Marco Imarisio sul Corriere), di certo i temi, e necessariamente. Infatti con il proporzionalismo assoluto di queste leggi elettorali e con la doppia fiducia, è impossibile prevedere a quali contorte acrobazie si dovrà ricorrere per formare un governo. E se è meglio lasciarsi le mani libere, è giocoforza rinunziare a parlare di politiche pubbliche e di impegni programmatici.

Certo si sarebbe potuto parlare degli errori fatti, provare a individuare il “metodo” nella loro ricorrente “follia”: ma le autoanalisi, perché servano, han da esser dolorose, e non sarebbe stato giusto sottoporre a simili esercizi coloro che il selection bias ha indotto a venire a un convegno politico. E allora non rimane che parlare loro di cose condivise, lasciarli scorrazzare nell’ampio e sicuro spazio dei temi identitari: correndo il rischio di risvegliare temi, da non molto e non senza fatica, consegnati alla memoria storica. Al podio si susseguivano persone di cultura o di esperienza o di entrambi, e chi, come il sottoscritto, ha gusto per l’oratoria politica e ammirazione per chi sa praticarla con maestria, non ha di che lagnarsi: alcuni interventi, compreso quello conclusivo di Renzi, erano di livello.

“La bella storia di Orlando innamorato e poi furioso”. La memoria adolescenziale del saggio di Panzini ritorna come parafrasi: la storia di noi, di Renzi innamorati e poi furiosi. Perché innamorati lo fummo, quando eliminò l’antiberlusconismo come strumento della politica. Lo fummo quando trasformò la pallida “vocazione” veltroniana in punto centrale del suo programma: una legge elettorale che superasse i governi di coalizione, conferisse stabilità a un governo sostenuto dalla sua maggioranza, consentisse agli elettori di determinare in modo immediato la maggioranza parlamentare. E quando si sentì dire (da Gustavo Zagrebelsky nel duello televisivo con Renzi) che perfino il verbo “vincere” applicato alle elezioni non è tanto appropriato, e che l’impossibilità di far mancare il numero legale alla settima votazione per il presidente della Repubblica è un vulnus ai diritti delle minoranze, allora si ebbe la certezza che la vera posta in gioco nel referendum era maggioritario–proporzionale. Per questo se ne fu “furiosi” difensori.

Gli errori si pagano, oggi l’Italicum è sepolto insieme al referendum, e nessuno lo rimpiange. C’è stato un momento in cui forse a Renzi sarebbe stato possibile centrare l’obiettivo che il governo Ciampi nel 1993 si era lasciato sfuggire, usare cioè anche nelle elezioni politiche il maggioritario a doppio turno con cui eleggiamo i sindaci. Oggi l’assetto istituzionale è diverso da quello immaginato, diverse sono le posizioni e i rapporti di forza, in Italia e in Europa. Diverse le priorità: oggi si tratta di garantire la possibilità di formare governi di ragionevolmente stabili, di scongiurare che per qualche combinazione di trasformismi e opportunismi il nostro Paese venga proiettato verso disastrose avventure fuori dall’Europa. Oggi anche le soluzioni devono essere diverse: intervenendo sulla quota proporzionale del Mattarellum, dicono gli esperti, dovrebbe essere possibile raggiungere gli obbiettivi di stabilità e soddisfare chi ripone nel proporzionale legittime speranze di sopravvivenza politica.

Che il maggioritario sia la scelta del Pd lo dicevano anche personaggi di primo piano poi usciti dal Pd; Renzi non ne fa mistero. Ma se alle parole non fa seguire iniziativa politica è come dicesse “vorrei ma non posso”. E’ tattica, dato che con la legislatura che durerà fino alla sua scadenza naturale, c’è tempo per raffinare il progetto e cercare i consensi? Oppure, come sospetta Stefano Folli, “Renzi vive tuttora dentro l’illusione maggioritaria”? In ogni caso pericoloso non vedere la realtà. Se, come al Lingotto si è sentito affermare con orgoglio, il Pd è l’unico pilastro contro le forze antisistema, il modo per dimostrarlo è un’iniziativa politica che sappia per raggiungere i consensi necessari a fare adottare una legge elettorale maggioritaria.

Da Il Foglio, 15 marzo 2017

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