5 Maggio 2014
Il Giornale
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Come già altre volte in passato, ieri il Censis ha diffuso i risultati di un suo studio volto a evidenziare le diseguaglianze economiche. In questo caso, dall’analisi emergerebbe che i dieci uomini più ricchi d’Italia dispongono di un patrimonio di ben 75 miliardi di euro, e cioè quanto posseggono tutte assieme quasi 500mila famiglie operaie. La lettura che di norma viene data di questi dati è ben nota, poiché nella mentalità corrente la semplice disparità dei sistemi capitalistici implica ingiustizia, senza che ci si chieda se quei patrimoni (anche immensi) sono stati costruiti in maniera onesta, grazie a iniziative imprenditoriali ed eredità.
Per molti, ormai, la sola presenza di dislivelli di reddito autorizzerebbe la classe politica a sottrarre ai legittimi proprietari e dare ad altri. In verità, di per sé non c’è nulla di scandaloso nel fatto – altro dato Censis – che duemila persone (lo 0,003% del totale) abbiano una ricchezza che è pari al 4,5% dei patrimoni complessivi detenuti dagli italiani. Semmai, e quello è certamente da condannare, in troppi casi quei patrimoni non emergono dal libero mercato, ma sono il risultati di protezioni, aiuti pubblici, connessioni poco chiare tra politica ed economia. Il luogocomunismo redistributivo e assistenziale, una cultura affetta da egualitarismo e invidia sociale, non si cura però di tutto ciò: constata l’esistenza di diseguaglianze e lascia intendere che i poveri sono poveri perché i ricchi sono ricchi. Negando un dato ovvio, e cioè che un Paese declinante quale è il nostro avrebbe invece bisogno di avere al suo interno sempre più capitalisti: sia italiani, sia stranieri.
La mentalità antiliberale non vuole accettare che dei ricchi e dei ricchissimi abbiamo un disperato bisogno: se si tratta di uomini molto facoltosi che dispongono di capitali costruiti rispettando le regole di mercato. Il successo imprenditoriale, che per i socialisti di ogni colore è associato a iniquità, è la prova che vi è stato qualcuno che ha saputo innovare, costruire realtà mai viste prima, andare incontro alle esigenze dei consumatori. Steve Jobs e Mark Zuckerberg hanno realizzato imperi finanziari perché ci hanno dato qualcosa che abbiamo significativamente apprezzato: e perché, in forme molto diverse, hanno migliorato il mondo in cui viviamo. Perché i poveri siano meno poveri, abbiamo quindi bisogno di tycoon. E il generale miglioramento delle condizioni di vita non necessariamente esige una riduzione delle distanze sociali. Anche sotto il profilo morale, come rilevò il filosofo inglese Antony Flew, bisogna attentamente distinguere l’atteggiamento del «buon Samaritano», che ha cura i più deboli, e quello del «Procustiano», che invece vuole solo abolire differenze e diversità. E mentre chi aiuta i bisognosi agisce eticamente, lo stesso non si può dire per chi rifiuta il successo altrui. Invece che porre sotto processo quanti hanno costruito fortune sul libero mercato, sarebbe allora opportuno interrogarsi sul perché – per richiamare altri dati offerti dalla ricerca del Censis – oggi sia tanto difficile mettere al mondo figli, dato che la nascita del secondogenito farebbe quasi raddoppiare il rischio di finire in povertà, che passerebbe dal 13,1% per le coppie con un figlio al 20,6% per quelle con due figli.
La cosa non è sorprendente, poiché in società come le nostre – e non era così nel mondo rurale – ogni allargamento della famiglia comporta un costo ulteriore. Ma è pur vero che questo è anche conseguente a un sistema fiscale che sta distruggendo sempre più le imprese e le famiglie, a tutto vantaggio di apparati parassitari e gruppi clientelari. Qui davvero il capitalismo non c’entra nulla. E non potremo evitare il calo demografico e con esso anche il crollo della civiltà se non sapremo ridurre drasticamente la quota di ricchezza che lo Stato sottrae al mondo produttivo. A essere veramente iniquo, allora, quel socio occulto statale che ormai sta logorando il tessuto economico e minando le fondamenta stesse della società.
Da Il Giornale, 4 maggio 2014