Il quid hayekiano e thatcheriano di Caprotti, fascio di energia lombarda

La sua vita è stata un lungo ragionamento su che cosa volesse il consumatore, su come migliorare la sua esperienza di acquisto, su come preservarne la fiducia

4 Ottobre 2016

Il Foglio

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Sulla lapide, dovrebbe star scritto “Bernardo Caprotti (1925-2016), imprenditore lombardo”. L’aggettivo vale quanto il sostantivo per capire, nei limiti del possibile, atteggiamenti e tic del padrone di Esselunga. Per intenderci, Caprotti era tipo che ci teneva a ricordare al suo interlocutore, già è stato scritto, d’essere tarantolato dal lavoro al punto di non aver mai visitato Gerusalemme, e gli sarebbe piaciuto, e di aver disertato regolarmente il suo palco alla Scala, e amava l’opera. Lì per lì l’interlocutore guardava ammirato questo monumento vivente all’abnegazione imprenditoriale. Era difficile però che non si chiedesse, a un certo punto, se davvero tre ore di Traviata potessero infliggere un colpo mortale alla produttività di Esselunga o se una visita in Israele, regolarmente equipaggiati di telefono peraltro, avrebbe messo a repentaglio il futuro della Ferrari della grande distribuzione. La verità è che tutti siamo nati per soffrire, ma noi lombardi di più. Fra Milano e Sondrio se di una persona si dice che lavora troppo, sottinteso: non ha un attimo per godersi la vita, è per farle un complimento. Già arrivati a Pavia qualcuno comincia ad alzare il sopracciglio.

Caprotti veniva da una famiglia di blasone, nel 1830 Giuseppe Caprotti aveva ereditato un piccolo laboratorio e ne aveva fatto una manifattura tessile, ingranditasi enormemente sotto la guida del figlio, un altro Bernardo. La storia della famiglia è ripercorsa sul sito di Giuseppe Caprotti (un altro Giuseppe). Il tessile stava stretto al Bernardo del Novecento. Supermarket italiani nasce da un’idea di Bernardo Caprotti, del fratello Guido e di Marco Brunelli (l’altro principe della grande distribuzione italiana). Ma per gli stessi lombardi che non si lavora mai abbastanza, avere dei soci è una faccenda complicata e la figura di Bernardo finisce presto per egemonizzare l’impresa. Caprotti non era un uomo: era un fascio di energia, sembrava incapace di star fermo, non si fatica a immaginarlo insofferente verso le pastoie di una governance “condivisa”. Nel suo libro, “Falce e carrello” (che Marsilio ha rimandato in libreria con una fascetta iperbolica ma non sbagliata: un classico del pensiero liberale italiano), Caprotti voleva spiegare i motivi della sua contesa con le Coop, raccontare le ingiustizie subite, e lo fa, ma tutto ciò impallidisce innanzi al racconto autobiografico. Racconto lombardo anche quello: qualche espressione di modestia, patentemente falsa, e poi una vita passata a rincorrere le proprie intuizioni, e a lavorare di lima. Perché siccome siamo tutti esseri umani, e tutti sbagliamo, persino un Caprotti, l’unico modo di farcela è visitare i supermercati all’alba, provare i prodotti, interrogarsi incessantemente su che cosa deve stare qui e cosa lì e perché. Compensare alla fallibilità propria e altrui con un impegno che non conosce soste: ecco la filosofia dell’imprenditore lombardo. Caprotti l’applicava a un ambito particolarmente complesso, la distribuzione commerciale. Complesso perché “rispetto al lavoro dell’ingegnere, quello del mercante è in un certo senso molto più ‘sociale’, cioè intrecciato alle libere attività di altre persone” (Hayek). Raggiungere la perfezione non richiede solo abilità e cura, ma un confronto costante col consumatore. Questo è il “bacillo del retail” del quale Caprotti parla nel suo libro, e non è un caso se l’aveva preso negli Stati Uniti: perché negli anni 50 quella americana era senz’altro la società che più aveva messo al centro il “cittadino consumatore”, e probabilmente così è tutt’ora. I convincimenti di Caprotti, thatcheriano per sua stessa definizione, venivano di lì e dall’aver saputo evitare la sindacalizzazione selvaggia della sua azienda quando, negli anni 70-80, il pericolo era più forte. Dal suo scarso feeling coi sindacati venne l’antipatia delle Regioni rosse, e le vicende che fecero sì che gli ci vollero quarant’anni per aprire un punto vendita a Firenze, nella frazione di Galluzzo. La storia dei conflitti di Esselunga è in realtà la storia dell’arbitrarietà della pianificazione urbanistica, usata per favorire gli amici e colpire i nemici.

Le intuizioni imprenditoriali di Bernardo Caprotti sono numerosissime. Si comincia dall’idea in sé, che l’Italia del boom fosse pronta per il supermercato, poi l’importanza delle location (Esselunga ha talora precorso, con la scelta dei siti, lo sviluppo di alcune aree urbane), l’attenzione alla logistica per garantire un fresco che fosse tale, il passaggio ai “superstore”, la “Fidaty”. La sua vita è stata un lungo ragionamento su che cosa volesse il consumatore, su come migliorare la sua esperienza di acquisto, su come preservarne la fiducia.

Nel fare totalizzante dell’imprenditore lombardo, tutto il resto finisce in secondo piano, e nel resto c’è la vita. Il conflitto coi figli, banalizzato dai giornali nella vicenda di un arzillo vecchietto che si riprendeva il suo dalla prole pasticciona, deve essere stato un dolore lacerante. Era anche una manifestazione di voglia di vivere, vivere come aveva sempre fatto, con la testa nei suoi negozi e i suoi negozi nella testa. Ai figli toccherà scegliere se misurarsi con un fantasma colossale, o vendere, lasciare l’Esselunga di Caprotti alla memoria, e provare a diventare i Caprotti di qualcos’altro. In un caso e nell’altro, in bocca al lupo.

Da Il Foglio, 4 ottobre 2016

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